La cittadinanza è la condizione con la quale l’ordinamento giuridico di uno Stato riconosce la pienezza dei diritti civili e politici ai propri cittadini. Nell’ambito dell’Unione Europea si va sempre più affermando il concetto di “cittadinanza europea”, che consente ai cittadini dell’Unione alcuni diritti, oltre che quelli sociali anche politici, tra cui la capacità elettorale, attiva e passiva, sia alle elezioni locali che a quelle europee, in ragione della sola “residenza” e a prescindere dalla nazionalità di origine. Nella sostanza a livello Comunitario l’indirizzo acquisito è sempre più orientato su una concezione di modello societario che identifica la cittadinanza con la partecipazione dell’individuo al destino della comunità in cui vive, a prescindere dalla nazione di provenienza e dalle proprie origine.
Apparentemente sembra quasi che la vecchia Europa voglia aprirsi al multiculturalismo a danno della difesa della cultura di fondo che si rifà all’identità nazionale.
Per contro, studiando le singole accezioni nazionali alla normativa sull’acquisizione della cittadinanza, ci si rende conto che oltre ad una chiara difesa dell’identità propria (formazione e esami per chi vuole accedere alla nuova cittadinanza), sembra proprio che le idee poco chiare su che cosa bisogna fare l’abbia proprio la nostra Italia. Infatti, l’Italia consente in teoria la massima apertura sull’acquisizione della cittadinanza in virtù dello: “ius sanguinis” (diritto di sangue-nascita da un genitore in possesso della cittadinanza), allo “ius soli” (diritto per nascita sul territorio dello stato), al matrimonio contratto con un italiano/a, o infine per naturalizzazione, su richiesta dell’immigrato e a seguito di un provvedimento della pubblica autorità. Il tutto contornato dalla possibilità della “doppia cittadinanza”. Apparentemente sembra che l’Italia sia un paese apertissimo e accogliente. I fatti mostrano una realtà che, paragonata ai partner europei, se per gli emigrati italiani all’estero pecca in eccesso, per gli immigrati in Italia la complessità e l’inconsistenza delle procedure sono tali per cui il singolo ha scarse possibilità di concretizzare la procedura di naturalizzazione, rimanendo nella sostanza esente dall’acquisizione di diritti politici che gli darebbero la possibilità di diventare cittadino italiano a tutti gli effetti.
Secondo l’Ismu (Istituto sulla multietnictà), nelle elezioni del 2008 degli stranieri presenti in Italia ha avuto la possibilità di votare soltanto il 7%. Rapportando la situazione ai dati ISTAT 2011, poiché in Italia sono presenti 4.563.000 stranieri (7,5% della popolazione), decurtando un milione circa di giovani che sono al di sotto dell’età prevista, poco più di 3.500.000 stranieri rappresentano il potenziale di base per esprimere le proprie capacità di voto. Per contro, allo stato attuale solo il 7% (250.000 persone circa) è in grado di poterlo fare.
Oltre agli immigrati stranieri in Italia, ai fini dell’esercizio del diritto di voto, bisogna considerare anche la comunità degli italiani all’estero. Secondo le statistiche dell’AIRE, al 31 dicembre 2010, sono censiti 4.115.235 italiani residenti all’estero. Nel 2008, per le elezioni politiche, a fronte di una popolazione AIRE di 3.600.000 persone, per quasi 3.000.000 di elettori, solo 1.100.000 italiani (pari al 39%) hanno partecipato al voto, contro l’80% di tasso di partecipazione media espresso dagli italiani. A prescindere dalla bassissima partecipazione, dovuta principalmente al processo d’integrazione cui l’emigrato italiano va soggetto, il paradosso italiano lo si può meglio notare in Parlamento, dove, grazie ad una legge Costituzionale (per contro, la nostra costituzione non fa alcun riferimento al concetto di cittadinanza, né altrettanto a quello di cittadino!) oggi soggiornano 6 Senatori e 12 Deputati eletti nella “Circoscrizione Estero”. A prescindere dal fatto che non esiste in alcuno stato al mondo un tale tipo di rappresentanza parlamentare, il paradosso è evidente analizzando le caratteristiche dei singoli rappresentanti e quanto questi hanno prodotto nella legislatura. Senza voler generalizzare e per “par condicio” citerò solo due esempi: il Sen. Antonino Randazzo (PD), naturalizzato australiano, e il Sen. Esteban Caselli (PDL), nato a Buenos Aires da genitori italiani. Al Sen. Randazzo, grazie ai lunghi trascorsi in Australia, poco gli è rimasto della cultura italiana, se non uno schietto siciliano, sua terra natia. Il Sen. Caselli, avendo avuto una splendida carriera diplomatica in Argentina, di italiano ha ben poco, al punto tale che è stato fischiato dai nostri connazionali in Argentina, quando si è a loro rivolto in lingua italiana! Sui risultati politici dei rappresentanti del collegio estero, lascio al lettore la libera consultazione nelle apposite schede parlamentari. Sta di fatto che i due Parlamentari citati, così come molti altri della ripartizione estero, hanno in comune una caratteristica: godono entrambi di “doppia cittadinanza”.
Così come per gli italiani all’estero, il ragionamento è estendibile anche (e forse a maggior ragione) agli immigrati in Italia. Dando libero spazio alla Direttiva europea che identifica la cittadinanza con la libera scelta dell’individuo al destino della comunità in cui vive, non sarebbe più logico orientare il processo di naturalizzazione e di adozione (matrimoni) alla scelta del singolo, vincolandolo ad aderire a una sola cittadinanza? Probabilmente se qualche illustre parlamentare presentasse una simile proposta di legge (una riforma costituzionale sarebbe chiedere troppo!), l’Italia potrebbe dare finalmente maggiore chiarezza e libertà di opinione e di voto a chi realmente si sente italiano, a prescindere dalla nazionalità di estrazione o di adozione.
Discussione su questo articolo