Da qualche tempo, da queste pagine, ho sollevato il problema della “cittadinanza” e, puntuale come sempre, il Presidente Napolitano ne ha confermata la necessità per un’efficace soluzione. D’altra parte, il programma di Governo del Presidente Monti, dovrà prevedere anche una nuova legge elettorale che, oltre alle asimmetrie di rappresentanza evidenziate dall’attuale, meglio risponda alla nuova realtà italiana. Nel lessico giuridico internazionale, con il termine “cittadinanza” s’intende la condizione per l’esercizio della “sovranità” da parte del “popolo”, che ben si distingue dalla “popolazione”. Il primo è riferito all’insieme dei “cittadini”, mentre il secondo all’’insieme delle persone che vivono sul territorio nazionale; quindi, ai”residenti” non”cittadini”. Questa premessa mi è indispensabile per meglio chiarire il concetto di cittadino, quindi di cittadinanza, legandoli ancor più all’estrazione culturale del territorio e, quindi, all’identità nazionale. D’altra parte, negli ultimi anni si è parlato molto di Integrazione: è stata formata l’Unione Europea; sono subentrate la globalizzazione e l’integrazione dei mercati, e così via! Considerando i soli flussi migratori, oggi la società italiana mostra due realtà. La prima, legata agli immigrati: quindi persone di altra “identità” e altra “cittadinanza”. In totale, gli stranieri regolarmente registrati in Italia sono 4.563.000 e rappresentano quasi l’8% della popolazione italiana. Della totalità di questi immigrati, più del 30% sono bambini in età scolastica, e circa il 13% è nato in Italia. Dati indicativi che lasciano ben sperare, giacché l’Italia ha bisogno di colmare con altre immissioni le lacune dovute alla scarsezza di natalità. Va rilevato che più del 60% dei “nuovi residenti” è di provenienza da paesi che sono già membri dell’Unione Europea, o che lo diventeranno a breve. L’UE, d’altra parte, ha già emanato direttive sulla “Cittadinanza Europea” e, se è vero che stiamo andando verso una sovranità soprannazionale, non si potrà non tener più conto di quelli che oggi sono solo degli indirizzi giuridici. L’UE, infatti, prevede l’acquisizione a domanda del diritto di “Cittadinanza Europea” con pieni poteri “politici e amministrativi” per tutti coloro che sono “residenti” da più di cinque anni. Per contro, in Italia, a fronte di una apertura formale integrale sull’acquisizione della cittadinanza in virtù dello: “ius sanguinis”, “ius soli”, matrimonio contratto con un italiano/a, naturalizzazione su richiesta dell’immigrato, e la possibilità della “doppia cittadinanza”, i fatti mostrano una realtà che per gli stranieri da scarse possibilità di concretizzazione. E’ da notare, infatti, che nelle elezioni del 2008 soltanto il 7% della popolazione estera qui residente ha avuto la possibilità di votare. Nella sostanza, a fronte di poco più di 3.500.000 stranieri, potenzialmente in grado di esercitare il proprio diritto di voto, solo 250.000 sono divenuti “cittadini” con pieni diritti politici. Tutto questo volge a due considerazioni: da una parte la presenza di cittadini provenienti da altri paesi dell’Europa, per i quali non è ben definita la loro capacità politica nazionale (italiana); dall’altra, soprattutto per gli immigrati extracomunitari, la mancanza di una chiara volontà a passare dalla condizione di “Residente Estero in Italia”, quindi con il solo permesso di soggiorno, a “cittadino italiano”.
La seconda realtà è quella degli italiani all’estero, oltre quattro milioni di persone. Nel 2008 solo 39% ha partecipato al voto, evidenziando una bassissima partecipazione dovuta principalmente al processo d’integrazione cui l’emigrato italiano è andato soggetto. Se l’Ordinamento italiano avesse previsto la “libertà di scelta” su una (e sola) cittadinanza, probabilmente anche per gli Italiani all’estero si sarebbe ottenuta una partecipazione al voto molto più prossima alla media nazionale. Ma, oltre a questa realtà, esiste quella degli “invisibili”, così come classificati dall’ISTAT: quasi “due milioni” d’italiani che, o per ragioni di lavoro (imprenditori – dirigenti – quadri d’industrie e d’imprese), o per ragioni di studio sono in giro per il mondo, in particolare in Europa, in modo non ufficiale. D’altra parte questi giovani rispondono al processo d’integrazione europeo che ha comportato un allargamento del concetto di sovranità nazionale.
Il quadro europeo nel suo insieme ci fornisce, dunque, una sintesi delle problematiche cui accennato. Per un emigrato, integrarsi in un nuovo ambiente sociale, significa spesso rinunciare a parte della propria identità a vantaggio dei differenti valori e tradizioni della società che lo ospita. In ambito Unione Europea, dopo la "Convenzione Europea sulla Nazionalità" di Strasburgo (1997) l’indirizzo acquisito è sempre più orientato su una concezione di modello societario che identifica la cittadinanza con la partecipazione dell’individuo al destino della comunità in cui vive, a prescindere dalla nazione di provenienza e dalle proprie origini, a fronte di una chiara difesa della nuova “identità” (formazione ed esami che includono la conoscenza dell’Ordinamento Giuridico istituzionale e sociale nazionale e il giuramento sull’osservanza delle leggi). La stessa normativa Europea insiste per la concessione di nazionalità dopo cinque anni di residenza stanziale, lasciando, tra l’altro, libero spazio all’auto determinazione della prole di un matrimonio “misto” sulla scelta di un’eventuale “nazionalità propria” da selezionare futuro. Nella sostanza, si va sempre più verso un concetto di cittadinanza che enfatizzi l’integrazione nella valorizzazione delle singole identità nazionali, legando dunque la libera scelta dell’individuo al destino della comunità in cui ha scelto di vivere. Per arrivare all’attuazione di questo giusto principio, esiste una strada maestra che porta univocamente alla scelta del singolo per “una sola cittadinanza”. Immigrati in Italia o italiani all’estero, dovranno dunque decidere se aderire/rimanere cittadini italiani della Comunità Europea o della natia/nuova realtà ospitante.
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