L’impegno per il riacquisto della cittadinanza per chi risiede all’estero e l’ha perduta per aver dovuto prendere quella del Paese di insediamento quando non era consentito averne più di una, è stato la mia prima preoccupazione da quando siedo tra i banchi del Parlamento. Risale, infatti, al 2006 la mia proposta di legge in proposito, che ho reiterato sia nella XVI legislatura che in quella attuale.
In essa si affrontano in pratica due questioni: la riapertura dei termini per il riacquisto della cittadinanza italiana, così come regolato dalla legge 5 febbraio 1992 n. 91, e l’eliminazione delle remore procedurali che si frappongono al pieno riconoscimento della facoltà di trasmissione della cittadinanza da parte della donna che abbia perduto la cittadinanza italiana senza sua volontà per matrimonio contratto con straniero prima dell’entrata in vigore della Costituzione.
E’ passato tanto tempo – si chiederà qualcuno -, come mai il Parlamento e il Governo non hanno preso finora una decisione? Le ragioni sono sostanzialmente due.
La prima, di carattere strettamente politico, è che la questione della cittadinanza nel confronto politico-parlamentare è diventata dirompente per l’atteggiamento di contrasto frontale che il centro-destra e, in particolare, la Lega di Salvini hanno assunto in merito alla semplificazione delle procedure di concessione della cittadinanza agli stranieri presenti in Italia, anche di quelli che vi sono nati e/o frequentano un intero corso di studi. E poiché le cose vanno insieme, questo ostacolo impedisce anche la presa in considerazione degli aspetti che riguardano gli italiani all’estero.
La seconda è di natura finanziaria, particolarmente rilevante nella fase di crisi che l’Italia da molti anni ormai sta affrontando. I funzionari dello Stato, quando si parla di allargamento della platea dei cittadini all’estero, agitano lo spettro dei costi diretti e indiretti (servizi consolari, pensioni, sanità, ecc.) che tale scelta comporterebbe. E queste posizioni, al di là della loro attendibilità, fanno obiettivamente da deterrente di qualsiasi soluzione, anche di quelle sensate.
Il compito, insomma, è arduo, ma di fronte alle cose giuste non ci si può fermare. Ed è quello che, assieme agli altri colleghi del PD eletti all’estero, sto facendo e continuerò a fare.
Lo stato dell’opera, comunque, è il seguente. Alla Camera, la Commissione Affari costituzionali sta esaminando la legge di iniziativa popolare che prevede esclusivamente le procedure per la concessione della cittadinanza agli stranieri. Per regolamento, ad essa sono collegate tutte le altre leggi sulla cittadinanza, che sono addirittura 23. Tra queste, 6 o 7 riguardano gli italiani all’estero.
La Commissione continuerà i suoi lavori su questo tema alla ripresa. Finora, tuttavia, non c’è stato un apprezzabile impegno per conciliare i due versanti del problema, ma naturalmente saremo vigili sugli sviluppi, anche se non possiamo tacere le difficoltà di agibilità politica che si presentano.
In parallelo, al Senato è iniziato il lavoro di integrazione delle proposte di legge relative alla cittadinanza e, in questo caso, anche di quelle di nostro più diretto interesse. Anche in questo caso, il lavoro continuerà nella fase autunnale. Poiché il problema non riguarda chi riuscirà a piantare prima la bandierina e a intestarsi il successo, ma piuttosto il risultato che si riuscirà ad ottenere. Personalmente ho già dichiarato la mia disponibilità a sostenere una positiva soluzione da chiunque venga, pur di raggiungere un obiettivo da tempo perseguito.
*deputato Pd eletto all’estero, residente in Australia
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