In questo periodo preelettorale svizzero il tema dell’immigrazione non è un problema che interessa i grandi partiti, ad eccezione dell’Unione democratica di centro (UDC), la destra radicale svizzera. Nei media, invece, è sempre d’attualità. Qualche giorno fa mi ha colpito il titolo di un articolo secondo cui gli stranieri «vengono di passaggio e invece restano». Ne parlo perché quel titolo rispecchia ampiamente un modo diffusissimo, ma erroneo, di interpretare l’immigrazione in questo Paese, anche quella italiana. L’idea cioè che gli stranieri chiedono e la Svizzera risponde; gli stranieri cercano e la Svizzera dà.
Aveva ragione Max Frisch Correttamente, nel 1965, Max Frisch scriveva ai suoi concittadini: «Abbiamo chiamato braccia e sono venuti uomini». Il grande scrittore vedeva bene la dinamica dell’immigrazione, soprattutto quella italiana. Storicamente, infatti, non furono gli italiani che si precipitarono ai valichi di frontiera con la Svizzera per chiedere un lavoro, ma fu sempre questo Paese ricco di progetti e d’iniziative ma povero di manodopera indigena a «chiamare» lavoratori stranieri.
Purtroppo Frisch ha avuto pochi seguaci perché la lettura che si dà abitualmente del fenomeno migratorio è esattamente inversa. Nel 2011, anche la Presidente della Confederazione Micheline Calmy-Rey sembra avere qualche difficoltà a ripercorrere la vera storia dell’immigrazione italiana. Nel suo saluto agli italiani in occasione del 150° dell’unità d’Italia, ne ricostruisce così a grandi tratti l’evoluzione: «Negli anni a cavallo delle rivoluzioni del 1848/49, molti rifugiati italiani e grandi personalità del Risorgimento (…) trovarono accoglienza in Svizzera. La seconda metà del XIX secolo segnò poi l’inizio della prima ondata immigratoria nel nostro Paese. Si passò dai circa 10.000 immigrati italiani nel 1860 ai 117.000 nel 1900 e agli oltre 200.000 nel 1910. (…) Alla fine della seconda guerra mondiale, allo scopo di allentare la situazione politica interna e sociale, l’Italia favorì l’emigrazione; oltre 100.000 italiani raggiunsero la Svizzera nel 1947 e altrettanti l’anno successivo. La comunità italiana continuò a crescere fino al 1975, quando con 573.085 persone registrate rappresentava più dei due terzi della popolazione straniera residente in Svizzera».
E’ vero che la Presidente della Confederazione sente il bisogno di ringraziare gli italiani, che «hanno contribuito sensibilmente al rapido aumento del benessere nel nostro Paese», ma la sua ricostruzione storica di questo contributo è purtroppo imprecisa e lacunosa.
Qual è stata la vera dinamica migratoria? La dinamica dell’immigrazione italiana nella seconda metà dell’Ottocento è dovuta soprattutto alla volontà della Svizzera di sviluppare la propria rete ferroviaria, per esigenze interne e internazionali. Non disponendo della manodopera indigena necessaria, la ricercò all’estero, soprattutto in Italia. E a decine di migliaia vennero chiamati minatori, sterratori, carpentieri, manovali… per realizzare non solo le grandi gallerie ma anche le rampe di accesso, i ponti e tutte le altre infrastrutture della rete ferroviaria e stradale.
Quando tra la prima e la seconda guerra mondiale l’economia svizzera tirava poco e non aveva bisogno di molta manodopera, pochissimi italiani vennero in Svizzera semplicemente perché non ne erano richiesti di più!
Anche quando parla della forte ripresa dell’immigrazione italiana in Svizzera nel secondo dopoguerra, l’analisi della Presidente della Confederazione è parziale e lacunosa, perché si limita a registrare che la situazione politica e sociale dell’Italia favoriva l’emigrazione, ma sorvola completamente sull’urgente bisogno della Svizzera di manodopera italiana. Uscita indenne dalla guerra e con un apparato produttivo messo sotto pressione per poter soddisfare le richieste di beni provenienti da mezzo mondo, la Svizzera aveva urgente bisogno di manodopera. Non potendola ottenere dalla Germania e dall’Austria (perché le potenze occupanti non concedevano permessi di emigrazione) e nemmeno dalla Francia (perché non aveva esuberi da collocare all’estero), la Svizzera si rivolse all’Italia, dove la manodopera abbondava.
Già verso la fine del 1945, la Svizzera si rivolse all’Italia e subito dopo che il governo italiano ebbe dato il proprio assenso (inizio di febbraio 1946) la Svizzera presentò il 14 febbraio alla Legazione italiana di Berna (non ancora Ambasciata) una prima richiesta di manodopera da impiegare nell’agricoltura, nel ramo alberghiero e della ristorazione, negli ospedali e istituti, nell’industria tessile e nei servizi domestici. Per gli italiani erano già pronte per il 1946 non meno di 20.000 autorizzazioni, che sarebbero state oltre 90.000 per il 1947. Nella richiesta, che specificava il fabbisogno per ciascun ramo, si esprimeva anche il desiderio che si procedesse celermente (ossia nel giro di 3-4 settimane) al reclutamento.
Perché il boom di arrivi «stagionali» Negli anni e decenni successivi le richieste di manodopera italiana si moltiplicarono. Per questo ci fu per oltre un trentennio un vero e proprio boom di arrivi, che favorì enormemente anche la nascita di nuove imprese, tra cui, per citare solo un nome, la Monteforno di Giornico, Ticino. Lo storico Matteo Pelli ricorda che «il fattore decisivo [per la creazione dell’acciaieria] fu senz’altro la possibilità di importare dall’Italia manodopera già formata e con grande esperienza nel settore». Tra il 1947 e il 1970 la Svizzera mise a disposizione ben tre milioni di permessi stagionali. Ne vennero utilizzati oltre due milioni e mezzo: le esigenze dell’economia prevalevano persino sui sentimenti antistranieri che minacciavano tensioni sociali e fino alla crisi della metà degli anni Settanta nemmeno i contingenti di manodopera introdotti dalla Confederazione riuscivano a limitare le richieste dell’economia e l’afflusso di immigrati. La domanda di manodopera estera, soprattutto «stagionale» (per impedire che potessero domiciliarsi in Svizzera!) era talmente consistente che le grandi imprese di costruzione avevano una vera e propria rete di reclutamento in Italia, con funzionari che percorrevano l’Italia in lungo e in largo per ingaggiare personale da adoperare nei grandi cantieri, dove la manodopera svizzera scarseggiava.
Bilancio positivo, ma per chi? Col tempo la collettività italiana immigrata ha messo radici in questo Paese e oggi anche la Svizzera ufficiale la riconosce come la comunità «straniera» più integrata. Del resto, numerosi svizzeri di origine italiana siedono ora nel parlamento federale e in quelli cantonali e comunali, nei consigli di amministrazione di banche e grandi imprese, nelle università, nel giornalismo, ecc.
Ciononostante sono ancora molti coloro che trattano questo capitolo della storia svizzera come di un periodo di grande magnanimità della Svizzera nei confronti di decine di migliaia di persone bisognose in cerca di lavoro. Si dimentica facilmente la vera ragione per cui sono venute e soprattutto quanto hanno dato in cambio. In un ipotetico bilancio tra dare e avere, gli immigrati sono quelli che hanno dato più di quanto hanno ricevuto. Lo diceva nel 1972 l’allora presidente della Confederazione Nello Celio.
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