Grande successo per i film italiani presentati al Toronto Film Festival, con “Il primo uomo” di Gianni Amelio – presentato in anteprima mondiale – che ha vinto il Fipresci: il premio assegnato dalla critica, con questa motivazione: “la pellicola di Amelio, tratta da un’opera postuma e incompiuta di Albert Camus, esplora il retaggio del colonialismo con la sensibilità di un biografo e la tenacia di un corrispondente di guerra”. Girato interamente in Algeria e prodotto dal francese Bruno Peséry, il film è una co-produzione italiana, con Rai Cinema e Cattleya, ambientato negli anni ‘50 con il protagonista Jacques Cormery, alter-ego di Camus, che ricorda gli anni della propria infanzia e paragona quegli anni alle contraddizioni sviluppate nella successiva vita d’adulto.
Un’altra piccola co-produzione italiana ha vinto il prestigioso Cadillac People’s Choice Award: “Where Do We Go Now?” di Nadine Labaki (già apprezzata per ”Caramel”), che si è aggiudicata il premio di $15,000 che ogni anno viene conferito al regista il cui film risulta il preferito dal pubblico. Pubblico che, congiuntamente alla critica, ha tributato una vera ovazione a “Terraferma” di Crialese ed applaudito con convinzione i film di Moretti e di Olmi, ma anche il corto “Isole”, con Asia Argento e Rocco Papaleo, firmato dall’abruzzese Stefano Chiantini e il lavoro di Rolando Colla “Giochi D’Estate”, che racconta una storia di violenza domestica, ma anche il percorso di crescita di alcuni ragazzini, durante un’estate in Maremma.
Per quanto riguarda “Isole”, per il quale era stato dapprima scelto il titolo “Essenzialmente tu”, le riprese sono partite ad agosto 2010 ed hanno avuto una durata di 5 settimane, nelle Isole Tremiti. Supportato dalla “Apuleia film commission”, il film è il terzo titolo del giovane sceneggiatore e regista marsicano Stefano Chiantini, che ha realizzato nel 2004 “Forse che sì, forse che no” e nel 2008 “L’amore non basta” con Vittoria Mezzogiorno. L’indubbio successo di Toronto e quello non trascurabile (oltre al premio speciale a Crialese) a Venezia, testimonia di una ripresa significativa della nostra cinematografia, che ha saputo rappresentare il nostro Paese come luogo di incontro e di scontro fra culture, popoli e sentimenti religiosi.
Parla di emigrazione anche "Il villaggio di cartone", in cui Olmi racconta di un gruppo di immigrati illegali che trova rifugio in una chiesa sconsacrata che sta per essere demolita. La paura dell’altro, del diverso, domina come una ossessione il nostro cinema attuale. Ed è un tema autenticamente sentito da chi usa il cinema nel suo ruolo di specchio lirico ed anche onirico della società. Quindi non la paura dell’altro come tema per conquistare il consenso e l’audience, ma come elemento di riflessione critica su una società in lento, inesorabile declino.
Oggi, in Italia, si sta diffondendo una sindrome dell’accerchiamento, estesa e indefinita. Ci sentiamo minacciati dall’esterno, da ogni fronte e da ogni direzione. Dalle rivolte e dalle guerre che avvampano nei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. E’ questa Italia senza riferimenti, con paure crescenti, interne ed esterne, con persone che ancora difendono il sesso come mercificazione e l’arrivismo più bieco come valore, mentre 5 milioni di giovani vivono disperatamente, che si proietta, come un incubo agghiacciante, nei film di Crialese e di Olmi, ma anche in quelli di Rolando Colla, Stefano Chiantini e tanti altri (visti a Toronto e Venezia). E va riconosciuto che il cinema italiano su questi temi, soprattutto (ma non solo), su quello migratorio, aveva iniziato una sensibile attenzione già dagli anni novanta del secolo scorso, come ci ricorda Sonia Cincinelli nel bel libro “I migranti nel cinema italiano”.
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