Erano 21 anni che non vincevamo a Berlino: da “La casa del sorriso” di Marco Ferreri, che vinse l’ambito premio nel 1991.
Va anche detto che a Berlino l’Italia ha vinto poco. Dal 1951, anno di fondazione, solo con Michelangelo Antonioni, “Il giardino dei Finzi-Contini” di De Sica e “I racconti di Canterbury” di Pasolini.
Il “Giulio Cesare” di Shakesperare interpretato dai reclusi di Rebibbia, ognuno con il suo dialetto, ha permesso, quest’anno, a Paolo e Vittorio Taviani (apprezzati e premiati soprattutto a Cannes, dove hanno vinto due volte), di realizzare un film asciutto e sublime, che ha convinto più degli altri la giuria presieduta da Mike Leigh.
Quanto a Marco Vicari, ha dedicato il premio ricevuto a Berlino sabato scorso, “al cinema italiano a cui sta tornando finalmente la forza di raccontare cosa davvero accade in questo Paese”.
Il suo “Diaz: Non pulite quel sangue”, è un film duro, realizzato attraverso un lavoro durato tre anni, con le violenze di quel 13 luglio alla Diaz, durante il G8 di Genova, che pesano, in cancellate, sulle nostre coscienze.
Un film indipendente con un grande impegno produttivo, con un set interamente ricostruito a Bucarest ed una strada di 200 metri, alla quale una squadra di artigiani ha lavorato per un mese e mezzo.
Al centro, invece, del racconto del film di Paolo e Vittorio Taviani, c’è un gruppo di detenuti della sezione di massima sicurezza del penitenziario impegnati nell’allestimento teatrale del Giulio Cesare di Shakespeare.
Nel film la finzione del palcoscenico si alterna con le vicende personali dei protagonisti che si interrogano sul senso della loro vita nel momento in cui entrano in contatto con l’anima dei propri personaggi.
Il film, che segna il ritorno dei due registi di San Miniato alla Berlinale dopo la presentazione nella sezione Berlinale Special nel 2007 con “La masseria delle allodole”, è il frutto della pluridecennale collaborazione tra i due fratelli iniziata nel lontanissimo 1960 con il documentario “l’Italia non è un paese povero”.
Un cinema, dicevamo, che si interroga sulle Contraddizioni del nostro Paese, un Paese con molte luci e moltissime ombre e che, anche adesso, esprime il disagio di 80.000 posti di lavoro che si perdono ogni giorno e di una stretta creditizia che rende il futuro sempre meno garantito e più precario.
Un Paese, poi, che non sa più orientarsi rispetto a certi valori che gli erano propri, ma che cerca disperatamente di rintracciarne altri per il futuro.
Non è un caso, forse, che a vincere S. Remo sia stata una canzona (“Non è l’inferno”), che proprio di questi temi tratta.
Tornando a Berlino 2012, l’Orso d’Argento come migliore regia è andato al tedesco Christian Petzold (al suo primo premio importante) per “Barbara”: un dramma sentimentale ambientato nella Germania degli anni ’80, incentrato sulla figura potente di una donna costretta a rinunciare all’amore per via della repressione da parte della Stasi.
Il Gran Premio della Giuria è andato, invece, all’ungherese Benedek Fliegauf, già regista di documentari e con una lunga esperienza teatrale alle spalle, per il dramma incentrato sul popolo Rom intitolato “Just the Wind”, un’opera che in patria ha ricevuto molte critiche da parte di gruppi estremisti.
Invece, l’Alfred Bauer Prize, il riconoscimento intitolato allo storico fondatore della Berlinale, è andato al regista portoghese Miguel Gomes per “Tabù”, pellicola in bianco e nero con diverse parti prive di dialoghi, segno che va nella stessa direzione di un cinema (penso a “The Artist”), che cerca di rintracciare se stesso soprattutto nella forza visiva ed evocativa delle immagini.
Premiati, infine, come migliori attori, due giovanissimi: Rachel Mwanza, protagonista di “Rebelle”, di Kim Nguyen, prima donna africana a vincere l’Orso d’Oro; e il bravissimo Mikkel Følsgaard, al fianco di Mads Mikkelsen, nei panni di Re Cristiano VII di Danimarca, nel dramma in costume En Kongelig Affære di Nikolaj Arcel, vincitore, insieme a Rasmus Heisterberg, anche dell’Orso d’Argento per la Migliore Sceneggiatura.
In una Italia che perde colpi in fatto di ricchezza e di garanzie, che fa fatica a recuperare immagine sul piano internazionale, che perde anche l’ultimo suo rappresentante in F1, con il team anglo-malese che ha dato il benservito al pescarese Trulli, per far posto al russo Petrov e ai suoi corposi sponsor, due vittorie davvero molto importanti.
Una Italia, che in fondo, deve imparare a riconoscere i propri errori ed i propri ritardi se vuole ripartire, splendidamente rappresentata dalla storia del “Bardo” messa in scena dai detenuti diretti dai Taviani: quella di un gruppo di congiurati che pensano di fare il bene della Repubblica, animati da sentimenti di onore e sacrificio, ma che, soprattutto, si assumono la responsabilità di ogni scelta, fosse anche quella di aver sbagliato.
Una Italia, questa, ancora in “nugae”, che si affaccia appena dietro a quella più brutale e oscura, descritta da Marco Vicari.
Con orgoglio aquilano, poi, segnaliamo che al suono del film di Vicari ha lavorato Alessandro Palmerini, nostro giovanissimo concittadino, formatosi all’Accademia dell’Immagine e già vincitore di un Ciak d’Oro e del Premio AITS per il suono.
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