Zurigo – La pellicola di Pino Esposito non è un film che lascia indifferente. Dopo il successo di critica e pubblico, il docu-film del giovane regista calabrese è stato proiettato in Svizzera, a Uster. ItaliaChiamaItalia ha incontrato Esposito a margine di un dibattito sul tema dell’emigrazione.
Da cosa nasce questo film?
“Da tempo volevo fare un film sulla Calabria, la mia terra e l’intento era quello di costruire qualcosa di poetico. Per questo motivo mi dispiace se qualcuno non lo ha capito e ha criticato le immagini forti e alcuni paesaggi. Soprattutto gli anziani non hanno compreso la mia volontà di raccontare la mia terra attraverso dei paesaggi atemporali. E poi volevo fare un film che parlasse della Calabria vista dalla parte dei migranti, essendo stato anche io un emigrato. Questo docu-film, poi, nasce anche dal mio interesse verso il cambiamento che stiamo vivendo in Italia, soprattutto al Sud: da paese di emigrazione gradatamente stiamo diventando terra di immigrazione. Un passaggio non semplice, che sta generando una vera e propria lotta tra poveri”.
La tematica affrontata è complessa e necessita di una certa sensibilità. Perché ha scelto la narrazione attraverso il genere del documentario? Anche se in realtà si è parlato di un docu-film, non pensa che un film avrebbe raggiunto un pubblico più vasto?
“Da una parte è stata una scelta: ho problemi che mi porto dietro da quando facevo teatro, con gli attori, ma la forma del documentario è stata anche una necessità dettata dalla tematica affrontata. Volevo delle facce vere, autentiche per raccontare questa realtà. Io per primo avevo bisogno di sentire la verità, l’autenticità e queste facce lo erano. Anche se alcune parti, chiaramente sono recitate, un film di questo genere non può essere inscenato. Ho voluto ricreare una percezione diretta della storia, senza perderne l’autenticità che inevitabilmente viene a mancare con il set, dove. perdi l’attimo. Il racconto c’è, ma è sullo sfondo, in primo piano ci sono i volti delle persone e la Calabria nei suoi paesaggi”.
Nel film ci sono molte immagini di cani, randagi, soprattutto. Un omaggio al grande regista surrealista Louis Buñuel?
“Non propriamente: nel mio film le immagini di questi cani randagi che si aggirano in paesaggi scheletrici sono metafora della lotta alla sopravvivenza di queste persone. Come nel documentario uno stesso emigrato paragona la loro esistenza a quella dei cani, le immagini dei randagi simboleggiano proprio questa condizione. Il senso di solitudine e di abbandono in cui si ritrovano, ma anche la lotta alla sopravvivenza”.
È stato definito un film forte, addirittura violento e qui è stata vietata la visione ai minori di 14 anni…
“Il film è forte non solo per le immagini, ma anche per via della tematica affrontata. Per questa ragione ho voluto raccontare ‘il nuovo Sud dell’Italia’ scandendolo in due precisi tempi: il primo più lento che permette di entrare lentamente nella narrazione, che invece diventa più veloce nella seconda parte. Così ho evitato una certa ‘violenza’ nello spettatore, facendolo addentrare lentamente nella lirica del racconto”.
“Il nuovo Sud dell’Italia” racconta le due facce dell’emigrazione: gli immigrati che cercano riscatto e giustizia, come nella rivolta a Rosarno Calabro, dall’altra i residenti che provano ad essere vicini agli immigrati ma che si sentono come privati di quel poco che possiedono. Lei dalla parte di chi sta?
“E’ una tematica complessa e io nel mio lavoro non ho voluto esprimere giudizi, ma solo raccontare una realtà. Il film è aperto, così come l’occhio dell’emigrato che conclude la pellicola. Non sta a me dire chi ha ragione e chi no, da emigrato poi, mi riconosco in entrambe le parti. Il finale di questa storia è nelle mani della classe politica, sono loro che hanno gli strumenti per poter agire”.
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