L’innovazione è un futuro perpetuo che ha bisogno del presente. L’innovazione è anche una parola magica che, nelle intenzioni, dovrebbe essere capace di risolvere tanti problemi. Ma non bastano le parole, e purtroppo a volte nemmeno le idee, c’è bisogno di più. Oggi (e domani) questo rinnovamento portato avanti essenzialmente dalla tecnologia ha un nome nuovo per molti: si chiama ‘start-up innovativa’, denominazione che ha fatto il proprio ingresso, da pochissimo, anche nella nostra legislazione. Un modo ovviamente nuovo di entrare nel mondo del lavoro e che dovrebbe avere anche l’appoggio e la spinta dello stato. In attesa di vedere se effettivamente queste nuove società, che dovrebbero essere appannaggio soprattutto dei più giovani, riusciranno a conquistarsi una fetta del mercato, l’Italia ha reso noto il primo elenco, sono poco più di 300 e dovrebbero rappresentare quella spinta tecnologica che nel nostro Paese mostra, purtroppo, grandi lacune.
‘Start-up innovativa’ diventa così un nuovo tipo di società che, nelle intenzioni, dovrebbe spingere, rilanciare, una economia che è a terra o quasi. Ecco che allora per cercare di capire, analizzare, studiare meglio il fenomeno ‘start-up italiano’, si è andati in un luogo magico, davvero, almeno per chi ha la tecnologia nel cuore: Silicon Valley, la valle del futuro che però ha anche un museo, il ‘Computer History Museum’ che si trova a Mountain View. Organizzato dalla fondazione ‘Mind the Bridge’, nell’ambito delle manifestazioni che compongono il ‘2013, Anno della Cultura Italiana negli Stati Uniti’, l’Italian Innovation Day’, così è stato battezzato l’evento, ha fornito indicazioni interessanti e contrastanti su questo specifico settore che, dovrebbe, e potrebbe, rappresentare un aspetto importante nella tanto attesa ricerca di un rilancio della nostra economia. Ma il primo dato presentato, frutto di una ricerca sulle dinamiche imprenditoriali in Italia, ha purtroppo ribadito una tendenza negativa, perché anche nella tecnologia, come in altri settori molto importanti, si guarda più all’estero. Infatti nel 2012 l’11% delle nostre realtà imprenditoriali relative allo start-up, ha deciso di abbandonare l’Italia, cercando all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, quelle opportunità che evidentemente da noi non ci sono, specialmente forse, proprio nel segmento della tecnologia più avanzata. Una percentuale già alta di per sè e che, se raffrontata all’anno precedente, ha registrato un incremento del 20%, una fuga che si va ad aggiungere a quella presente in altri settori, soprattutto scientifici. Se ne vanno i cervelli dall’Italia, una tendenza che in questo periodo sembra inarrestabile. Quali i motivi? Oltre ai più conosciuti, rappresentati dalla crisi economica, ne è stato rilevato un altro, molto importante, che riguarda le condizioni di lavoro vero e proprio. Il 69% degli intervistati nella ricerca presentata dalla fondazione ‘Mind the Bridge’, ha infatti sottolineato come ‘un buon ambiente di riferimento sia addirittura più importante dell’analisi dei costi, della fiscalità o delle modalità di accesso al credito’. Un ambiente che in Italia evidentemente non esiste e non solo facendo un confronto impossibile con Silicon Valley.
Ma non sono solo questi gli unici appunti che si possono fare all’Italia, c’è stato anche un altro aspetto messo in rilievo dalla ricerca del professor Alberto Onetti, docente alla Università Insubria di Varese: un paragone tra la realtà statunitense e quella italiana per quello che riguarda la presenza delle donne nelle proprietà delle società start-up. Negli USA infatti una impresa su tre, quindi il 33%, ha una guida al femminile, mentre in Italia si scende all’11%. Ci sono però anche altri numeri che fanno capire come la preparazione, da noi sia molto attenta, sempre paragonandosi agli States: il 42% degli startupper italiani infatti ha una laurea specifica, percentuale questa che oltre oceano scende al 17%, anche se qui si concede una maggiore attenzione alla formazione, con una media di preparazione di almeno sei mesi, aspetto questo invece quasi dimenticato in Italia. E per chiudere, e non poteva essere diversamente, l’aspetto fiscale: in USA il 40% degli intervistati ha dichiarato che tasse, incertezza economica e le regolamentazioni non interferiscono nella crescita dell’attività. Quasi inutile sottolineare che invece in Italia sia tutto il contrario.
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