Washington – Lo si potrebbe chiamare il risveglio di Barack Obama. La settimana scorsa, il presidente ha tenuto uno storico discorso in un paesino del Kansas, Osawatomie, dove esattamente un secolo fa Teddy Roosevelt denunciò le diseguaglianze economiche e sociali che oggi come allora uccidono la democrazia. Roosevelt, un repubblicano progressista, era stato presidente dal 1901 al 1909, aveva combattuto i monopoli e promosso riforme populiste. Vedendo il suo successore William Taft tradire la sua eredità a favore dei conservatori e del capitale, Roosevelt si ricandidò alla Casa bianca come indipendente nel 1912. Venne sconfitto dal candidato democratico Woodrow Wilson, ma per l’America negli anni a seguire il suo programma elettorale divenne un percorso obbligato. Roosevelt propose ciò che le mancava e che avrebbe poi ottenuto: una giornata lavorativa di solo otto ore, i sussidi di disoccupazione, il minimo salariale per le donne, la tassazione progressiva e così via. Teddy insomma fu l’antesignano degli attuali indignati.
Nel discorso di Osawatomie, Obama ha annunciato che assumerà il suo ruolo alle elezioni del 2012. Ha finalmente capito che oggi il movimento degli indignati è un partito trasversale che potrebbe cambiare l’America. E’ desolante che i repubblicani del 2012 siano l’opposto di Roosevelt, uno dei presidenti più amati della storia americana, siano degli altri Taft, e che dopo un secolo l’America si ritrovi alle prese con il problema della plutocrazia. Anche nella più grave crisi finanziaria ed economica dalla Grande depressione degli Anni trenta, i repubblicani insistono che i mercati debbono avere mano libera e che lo stato non può mai svolgere funzioni regolatrici. Le critiche di Roosevelt all’asse “del business corrotto e della politica corrotta” e “ai Creso malfattori” sono per loro populismo, anarchia, eversione. Ma la realtà è che la plutocrazia è la nemica della democrazia e che le sottrae il potere delegatole dagli elettori.
Roosevelt predicava lo “square deal” il corso giusto, la “politics of fairness”, la politica dell’equità di cui tanto si parla adesso in Italia, perché sapeva che se la ricchezza non viene ridistribuita tramite il fisco e il welfare, la democrazia non sopravvive. Una convinzione che Obama condivide, ma che aveva sinora tenuta nascosta nell’assedio mossogli dal Tea party, ora avviato al declino, e da Wall street. Sarebbe una vendetta della Storia se dopo un secolo il roosveltismo prevalesse. Ci sono le condizioni.
Cornel West, l’intellettuale nero più autorevole d’America, docente alla prestigiosa università di Princeton, pensa che quella degli indignati sia la terza rivoluzione americana. La prima fu contro il colonialismo inglese, afferma, la seconda contro la schiavitù, questa terza è contro le banche, le multinazionali, che si sono arricchite nella crisi. West spera che il movimento degli indignati inneschi una campagna pacifica di disobbedienza civile. Sono possibili svolte, e l’Italia farebbe bene a riflettere su ciò che avviene in America.
Il governo Monti è al di sopra di ogni sospetto, ma gli squilibri nella sua distribuzione dei sacrifici necessari a superare la crisi sono evidenti, anche se molti li ha già corretti. E’ la plutocrazia che va colpita, sono i grandi patrimoni, non i bilanci familiari e le pensioni. La plutocrazia ha molti volti, quello dei mercati, quello di Wall Street a New York e della City a Londra, quello di certe banche e assicurazioni. Essa uccide la democrazia perché impone il suo diktat ai governi e ai popoli con strumenti vessatori come gli hedge funds e le agenzie di ratings. Se i leaders europei facessero come Obama, si ispirassero a Roosevelt, si battessero per gli indignati, sarebbe molto più facile salvaguardare la democrazia.
In America, si dice che è in corso una battaglia tra l’1 per cento straricco e il 99 per cento povero. Sarebbe meglio parlare di uno scontro tra il 10 per cento più abbiente e il 90 per cento composto dal ceto medio, una specie che rischia l’estinzione, e dal ceto basso. Scontro che il 90 per cento perderà se l’austerity non verrà accompagnata da un forte rilancio dell’economia e se la finanza privata non verrà regolamentata. Obama si è prefisso di vincerlo, e potrebbe riuscirci perché l’America si sta riprendendo. Monti è indietro, sinora si è giustamente concentrato sulla riduzione del deficit di bilancio e del debito sovrano, il primo atto del suo governo, indispensabile per la salvezza dell’Italia. Ma nel secondo atto dovrà incentivare la crescita economica. Idem per il resto dell’Europa. Senza crescita e senza una rigida regolamentazione dei mercati, che ponga fine alle speculazioni, il debito non diminuirà mai.
Simon Johnson è l’ex capo economista del Fondo monetario e attuale direttore della Sloan school of managment americana. Ritiene di avere il rimedio giusto ai mali dell’Italia: “L’addio all’euro e la svalutazione del 20 per cento della lira, che la renderebbero competitiva”. A suo giudizio, “la fine della moneta unica non segnerebbe la fine del progetto Europa”. Anzi. Adottare l’euro, sostiene Johnson, è stato come mettere il carro davanti ai buoi. E per rimettere i buoi davanti al carro, bisogna dare la precedenza all’integrazione politica ed economica. In altre parole, la crisi italiana (e greca irlandese portoghese spagnola) sarebbe dovuta solo all’euro. Una tesi ineccepibile? Fino a un certo punto. Se l’euro crollasse sarebbe una catastrofe per l’economia globale. Inoltre, è vero che l’euro è il bersaglio principale dei mercati, o meglio delle loro speculazioni, tanto che persino la Francia è a rischio. Ma chi dice che non diverranno loro bersagli anche paesi che con l’euro non hanno nulla a che vedere, come il Giappone, la seconda economia al mondo, e la Gran Bretagna? C’è da aspettarsi che i mercati speculino sul Giappone e sulla Gran Bretagna. Il debito sovrano giapponese sfiora il 220 per cento e il deficit di bilancio il 10 per cento del Pil, quasi il doppio di quelli dell’Italia. Da tempo l’economia nipponica langue come la nostra e se la disoccupazione è inferiore, il 5 per cento contro l’8,5 per cento, è perché una più elevata percentuale di donne si tiene fuori dal mercato del lavoro e perché gli stipendi e i salari sono scesi in termini reali più che in Italia. I risparmi sono simili, ma il peso del debito sovrano su ogni cittadino è di ben 70 mila dollari in Giappone ed è la metà da noi. La Gran Bretagna ha un debito sovrano di circa l’80 per cento e un deficit di bilancio di circa il 10 per cento del Pil, è cioè in condizioni migliori. Ma ha una disoccupazione di circa l’8,5 per cento e un’inflazione di circa il 5 per cento. La sua economia è in ristagno perché ha apportato troppi tagli alla spesa pubblica e ha aumentato troppo le tasse, rendendo quasi impossibile la ripresa ed esponendosi alla sorte di Euroland.
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