“Gli italiani meridionali sono considerati, come si legge in un articolo del New York Sun del 1899, ‘il collegamento fra la razza bianca e nera. Scuri di pelle, i siciliani sono più neri dei nostri ‘negri’ mulatti’”.
Nel maggio 1922 la North American Review pubblica un articolo firmato dal dottor Arthur Sweeney sulla necessità di sottoporre gli immigrati a test psicoattitudinali.
Dai test condotti su 360 mila soldati statunitensi nati all’estero, emerge che il 45,6% si classifica con presunta età mentale tra i 7 e gli 11 anni, e dopo i polacchi gli italiani risultano i peggiori con una media del 63,4%.
Conclusione: “Abbiamo bisogno degli immigrati. Ma ci servono quelli intelligenti e adattabili all’ambiente che troveranno qui. Non abbiamo bisogno di ignoranti e idioti”.
Sono alcuni dei documenti raccolti da Mario Avagliano e Marco Palmieri nel loro libro “Italiani d’America. La grande emigrazione negli Stati Uniti (1870-1940)”.
Secondo un rapporto di Herman Feldman del 1924 sui fattori razziali nell’industria, gli italiani risultano “probabilmente i più maltrattati di tutti gli stranieri”.
Tra il 1876, anno della prima rilevazione ufficiale, e il 1900, quasi 27 milioni di italiani emigrano. Meno della metà – tra gli 11 e i 13 milioni – fa ritorno o perché non ammessi o per il fallimento dell’esperienza all’estero o per il desiderio di tornare alle origini dopo una vita di lavoro.
Nei primi anni del Novecento le paghe giornaliere negli Usa in lire erano tra le 6 e le 15 contro le 0,85-1,25 lire a cui poteva ambire ad esempio un contadino calabrese.