Il sommo poeta ci istruì in età scolare. In quanto a memoria Pico della Mirandola non temeva confronti. Nessuno come lui: non esisteva competitore in grado di rivaleggiare con quella sua straordinaria virtù. Quando si parla di memoria, oggi si cita un animale. “Hai una memoria d’elefante”, che è tutto dire, il massimo. Come a voler significare che quella persona ricorda tutto e ha una memoria di ferro. In questo caso è un metallo che funziona da qualificante termine di paragone. Ma come definirla la memoria del fisco italiano? Lunga è forse riduttivo, anche se rende immediatamente l’idea. Chiamarla però lunga è un esercizio limitativo, molto restrittivo, se si guarda al singolare caso di cui sono involontari protagonisti gli eredi di un contribuente torinese defunto nel 1987. Una vicenda tipicamente italiana. Il nostro è infatti il Paese delle cose esclusive, uniche. Quelle come questa che sanno di paradosso.
Giuseppe Alberto, il contribuente in questione, era nato nel 1920. Professione ristoratore, nel 1961 compilava la sua dichiarazione dei redditi. Comunque sia, una gran rottura di scatole: il modello, il commercialista, e allora la spedizione a mezzo posta all’Agenzia delle Entrate. Io che non mi reputo un Pico della Mirandola, non ricordo neanche se a quel tempo si chiamasse così: Agenzia delle Entrate. Nel ’61 e dintorni, l’attuale presidente di Equitalia, Attilio Befera, frequentava il liceo. Pure lui in età scolare, studiava Dante e la Commedia, e sapeva chi era e di quale pasta fosse fatto Pico della Mirandola. L’antesignano del Fisco italiano, in quanto a memoria. Il ristoratore Giuseppe Alberti era convinto di aver compilato la dichiarazione delle tasse in maniera corretta. Secondo lui; con qualche errore secondo il Fisco. Come da prassi, da un lato scattano gli accertamenti, dall’altra i ricorsi. Le schermaglie, per farla breve, sopravvennero una dopo l’altra, per anni. Fino al 1972, l’anno fatale. Giuseppe Alberto, non più sollecitato dal Fisco, si dimentica della lite. Quindici anni dopo muore e nessuno dei suoi figli sa di quel contenzioso. Intanto, nel mondo erano successe tante cose. Avvenimenti, eventi. I Beatles incidevano il primo disco. Meravigliosi, incredibili scarafaggi di Liverpool, hanno cambiato la musica. Momenti, lunghi momenti, esattamente meravigliosi. Giovanni Gronchi, presidente della Repubblica Italiana, aveva inaugurato le celebrazioni per i primo secolo della Nazione. Ne è passato del tempo, anni, più di cinque lustri. Cinquantadue anni di oblio totale, più di mezzo secolo. Il fisco non si fa più vivo. Fino a quando una lettera di Equitalia viene recapitata a tre dei quattro figli di Giuseppe Alberto. Equitalia è il famelico agente riscossore dello Stato.
Un cinico implacabile segugio. Un cacciatore di quattrini, non sai mai dove andare a parare quando Equitalia scende in campo. Accade spesso, praticamente sempre. Dentro la busta, gli eredi del ristoratore Franco Alberto trovano il saldo per quella vecchia tassa, evidentemente non pagata in maniera corretta nel 1961. E anche altre contestazioni dal ’62 al ’65 e gli interessi di mora. Totale 1.014 e 53 centesimi. Una mazzata di questi tempi, una roba che ti sbatte di giù meglio di uppercut di Mike Tyson. Dimenticavo: la carta dice che bisogna pagare immediatamente. Immediatamente come? Subito. La cartella è arrivata a trenta giorni dalla scadenza. Gli Alberto fanno un po’ di conti e notano che la cartella, guarda caso, è arrivata sei mesi prima della sanatoria. Il colpo di spugna che dovrebbe azzerare i piccoli debiti dei cittadini. Le multe sotto i 2.000 euro saranno cancellate. Il sospetto che l’abbiano fatto apposta abita tuttora nella mente degli eredi Alberto. Giusta o sbagliata la sensazione, smentita peraltro dalla Commissione tributaria (“Di queste multe ne abbiamo spedite in quantità industriali”), resta il fatto. Intanto, gli eredi sono tenuti a pagare. “Pagheremo, non ci sono più i tempi per presentare ricorso”. Ma il fatto vero è questo: la cartella di Equitalia è arrivata agli Alberto a distanza di 52 anni. Più di mezzo secolo e una triste conferma: il Fisco ha la memoria lunga. Pico della Mirandola e l’elefante gli fanno un baffo.
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