"Non so quanto diffusa e quanto comune sia la sensazione che ancora una volta ho provato alla notizia della morte del soldato italiano David Tobini: presumibilmente, una sensazione molto diffusa, molto comune, eppure complessivamente assai minoritaria, c’è da presumere". A scrivere è Daniele Capezzone, portavoce del PdL, sul sito web taccuinopolitico.it
"In me convive un doppio sentimento, più ancora che un doppio ragionamento. Da un lato, il dolore lancinante per la morte di un ragazzo (e mi fa impressione scoprire che aveva addirittura undici anni meno di me…), e insieme la vertigine di un laico e di un agnostico – quale sono – dinanzi all’incognita della morte, e alla forte probabilità che tutto sia finito lì per David. Non solo la possibilità di accarezzare il padre e la madre, di abbracciare un amico, di baciare una persona amata, ma tutto, tutto, tutto, e per sempre, senza eccezioni e senza recuperi, se non nel ricordo e nella memoria di chi lo ha conosciuto. E’ l’incertezza che domina tutto, il sospetto di uno scacco terribile, con tanto di atroce risata del destino, per chi non ha il conforto della fede.
Dall’altro lato, altrettanto forte, c’è il senso di quello che David stava facendo, e che non può essere lasciato a metà, senza con ciò infliggere un nuovo colpo alla memoria di quel giovane e di quanti, italiani e non, hanno trovato la morte in Afghanistan prima di lui. Per quanto si possa desiderare una maggiore chiarezza strategica della missione, per quanto si possano invocare diverse regole di ingaggio, per quante perplessità si possano avere sui primi passi compiuti dal Governo di Kabul (e ognuna di queste cose va discussa fino in fondo), resta comunque un punto incancellabile: senza David, e senza “i” David, i talebani sarebbero stati e sarebbero ancora più forti, centinaia di migliaia di donne sarebbero tuttora sottomesse a rituali disumani, altrettanti bimbi non avrebbero neppure una pallida speranza di una vita diversa.
Sì, questo è lo stato d’animo mio e di tanti come me, sia pure in minoranza. Non abbiamo avuto paura di essere definiti “pro war” (quando eravamo e siamo “pro democracy”), abbiamo preso vagonate di fango (e personalmente le subirei tutte e di nuovo, senza esitazione) per avere tentato di spiegare che la galassia neocon aveva ragione, che il “regime change” resta la strada da tentare ovunque possibile, che la destabilizzazione delle dittature di ogni segno e colore è una delle missioni più alte che una buona politica possa darsi.
E, con questo patrimonio di convincimenti, rivendico, rivendichiamo tutto intero il dolore lancinante per David e per tutti gli altri. E’ assurdo accettare lo schemino colpevolizzante per cui da una parte ci sarebbero i pacifisti (loro sì, carichi di pietas, con le carte “in regola” per soffrire) e dall’altra i freddi signori della guerra, disumanizzati e disumanizzanti. Non ci sto, non ci stiamo: abbiamo il cuore gonfio di sofferenza, gli occhi velati di pianto, facciamo i conti con il coraggio fisico e psicologico che ci manca o che non abbiamo a sufficienza, eppure – nello stesso tempo – non rinunciamo a pensare e a dire che i nemici della libertà (esattamente come i nazisti nel ’39-45) vanno ancora contrastati e colpiti.
Resta la speranza, su un altro piano, che ciascuno di noi, nella banalità delle nostre vite e delle nostre giornate, impari qualcosa (senza dimenticarlo troppo in fretta) dal senso, dal significato, dagli obiettivi, che David e gli altri hanno scelto per le proprie esistenze. Ci riusciremo, ne saremo capaci e – almeno un poco – degni?".
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