Riportiamo qui di seguito, in maniera integrale, senza aggiungere nulla altro, il servizio sui Comites pubblicato sul settimanale “ilVenerdì” di Repubblica e firmato da Lucio Luca. Buona lettura.
ROMA. Bilanci approvati senza nemmeno discutere, pezze d’appoggio che non si trovano, consulenze richieste a società no profit gestite da figli di consiglieri. E una serie di esposti inoltrati agli organi di controllo e vigilanza, prima alla console e all’ambasciatore negli Usa, poi al ministro degli Esteri e adesso persino alla Corte dei Conti.
Non c’è che dire, fra gli italiani all’estero volano gli stracci e nei Comites, i Comitati degli italiani all’estero istituiti nel lontano 1985 che dovevano diventare i “parlamentini” dei nostri connazionali oltre confine, si litiga come a Montecitorio. Forse anche di più.
L’ultima bega arriva da Houston dove il Comites riunisce i nostri connazionali che vivono in Texas, Arkansas, Oklahoma e Louisiana. Un paio di consiglieri – ma a sollevare le critiche erano stati almeno cinque – avevano chiesto chiarimenti al presidente Valter Della Nebbia sulla modalità di gestione dei contributi che ogni anno il ministero degli Esteri gira al parlamentino.
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Somme limitate, per carità – i finanziamenti per i 106 Comites disseminati in tutto il mondo non superano i tre milioni all’anno, una media di trentamila euro a struttura – ma pur sempre frutto delle tasse pagate dai contribuenti. «E quindi» spiegano i consiglieri Paolo Papi e Tiziana Ciacciofera, «da rendicontare seguendo i criteri imposti dalla legge. Senza dimenticare le donazioni e gli eventi per la raccolta fondi, per cui siamo riusciti ad avere parziali informazioni solamente dopo ripetute e insistenti richieste».
Apriti cielo, ne è nata una battaglia a colpi di e-mail, richieste di dimissioni e accuse di «voler dividere e distruggere per motivi personali». Fino ai ricorsi che rischiano di trasformare la lite in una questione giudiziaria. «Abbiamo chiesto più volte chiarimenti» sostengono Papi e Ciacciofera, «anche perché per approvare un bilancio occorre poter consultare tutte le carte che certificano le spese. Di più, prima di effettuarle, le spese andrebbero discusse e approvate. E invece non siamo mai riusciti a ottenere, per fare qualche esempio, gli originali dei biglietti aerei per alcuni relatori di conferenze e non abbiamo ancora capito quali sono le regole per il pagamento delle diarie. E poi c’è la questione della scelta dei revisori dei conti: ci hanno detto che per la nomina bastano la cittadinanza italiana e l’iscrizione all’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero. Peccato che in Italia venga chiesta non solo la competenza specifica nel settore ma anche l’iscrizione in un apposito albo, altrimenti si potrebbe nominare chiunque». A ogni richiesta, però, il presidente ha preferito tagliare corto: «Abbiamo fatto così per 11 anni e al ministero è sempre andata bene».
Dopo la mozione di sfiducia nei confronti di Tiziana Ciacciofera e le dimissioni di uno dei consiglieri che evidentemente non se l’è più sentita di andare avanti nella vertenza, ecco la decisione di inviare gli esposti per «riportare i lavori del Comites di Houston alla piena legittimità attraverso un sano, trasparente e domocratico svolgimento dei lavori». Ma le liti texane non sono certo un’eccezione nella tormentata gestione dei Comitati.
A Filadelfia, per esempio, la consigliera Gabriella Romani, direttrice dell’Alberto Italian Studies Institute, racconta che subito dopo l’elezione si è resa conto «di quanto fossero radicate certe brutte abitudini – clientelismo, sperpero di denaro pubblico – esportate sì all’estero ma sempre fiorenti in tutta la loro sconcezza di italica memoria. Finora – ha spiegato Romani in un articolo pubblicato dalla Voce di New York – si sono svolte a Filadelfia tre riunioni, da cui non è uscita alcuna proposta concreta da offrire alla nostra comunità. Se non quella di confermare una sede inutile che costerà migliaia di dollari allo Stato italiano».
Un’analisi impietosa confermata, per esempio, dalle percentuali delle ultime elezioni dei Comites svoltesi in tutto il mondo un paio di anni fa e costate ben 9 milioni di euro finanziati dalla Farnesina. A votare sono andati appena due italiani su cento aventi diritto. Tra Inghilterra e Galles sono stati montati 75 seggi con risultati imbarazzanti: tre scrutatori al lavoro (e dunque pagati) per due giorni per raccogliere meno di 40 voti a Worcester, tanto per fare un esempio. A Monaco di Baviera, su 58.178 italiani aventi diritto hanno inviato la scheda al Consolato soltanto 1.178 (e 150 sono state annullate perché imbustate in modo non corretto); a Bruxelles ha votato il 2,64 per cento; a Genk si scende all’1,29. E a Washington, per dire, la prima delle elette ha ottenuto la bellezza di 47 voti, non proprio un plebiscito.
«Perché nessuno conosce i Comites e nessuno sa a che cosa servono», dice Gabriella Romani senza tanti giri di parole. «I numeri dicono che dei Comites agli italiani che vivono all’estero non importa praticamente nulla», commenta Giuseppe Chiellino nel suo blog Il paese delle imprese. E da Londra, la scrittrice Caterina Soffici rincara la dose: «Si riuniscono solo per approvare i bilanci. E per approvare i verbali dove approvano i bilanci. Ah, ogni tanto vanno pure in missione, per esempio a Nottingham: per partecipare alla festa di Padre Pio, i consiglieri hanno preso una diaria di 200 euro al giorno a carico dello Stato». E forse non c’è bisogno di aggiungere altro per spiegare certe percentuali di votanti alle elezioni. (10 novembre 2017)
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