Problema. Prendete un’ambasciata che serve un territorio dove vivono 30 mila italiani e dove ogni anno ne arrivano più di 100 mila in vacanza. Chiudetela per «motivi di risparmio». Trasferite altrove i dipendenti, pagando loro viaggi e trasloco. Costringete residenti e turisti, per ogni necessità, a rivolgersi a un’altra ambasciata che sta a 1509 km esatti di distanza, raggiungibile solo con costosi voli aerei. Potenziate il personale di questa seconda ambasciata (sette persone in più) per far fronte ai nuovi impegni, poi trasferite gli uffici potenziati in uno stabile più grande e più costoso. Poi, dopo un anno e mezzo, fate marcia indietro: riaprite l’ambasciata che avevate smantellato, riportateci un ambasciatore (mezzo milione l’anno) e il vario personale diplomatico, aggiungeteci impiegati e contrattisti assortiti. Non dimenticate di pagare loro tutti i viaggi, i traslochi e le relative indennità di sistemazione. Domanda: quanto è costato il «risparmio»?
APRI E CHIUDI. L’ambasciata è quella di Santo Domingo, di cui il Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ha annunciato l’apertura il 4 ottobre, insieme a quelle di Niamey in Niger e Conakry in Guinea. Ma più che di un’apertura si tratta di una riapertura, visto che la stessa ambasciata era stata smantellata il 1° gennaio 2015 malgrado petizioni, raccolte di firme, manifestazioni e proteste della comunità italiana che vive e lavora a Santo Domingo (sono oltre 400 le aziende registrate alla locale Camera di Commercio).«La chiusura è stata realizzata con una scarna comunicazione nella quale si è deciso che tutta la struttura svanisse e venisse affidata all’ambasciata di Panama, che deve garantire anche i servizi consolari Haiti, Antigua e Barbusa, Saint Kitts e Nevis» protestava in un’interrogazione l’onorevole Ricardo Antonio Merlo (Maie).
TAGLI ALL’ITALIANA. Ma perchè Santo Domingo aveva dovuto chiudere? «Per ragioni di bilancio», aveva spiegato l’allora sottosegretario Mario Giro. E ufficialmente, infatti, il taglio rientrava in una spending review delle sedi diplomatiche che sopprimeva anche 36 consolati, cancellava le sedi di Reykjavik in Islanda e di Nouakchott in Mauritania (prive perfino di una casella postale, in realtà esistevano soltanto sulla carta) e smantellava la minuscola ambasciata di Tegucigalpa, lasciando però in piedi sedi meno rilevanti come Nicaragua (927 italiani residenti) o El Salvador (1879 connazionali).
ORIZZONTI MONGOLI. La mannaia su Santo Domingo, secondo il sito Italiachiamaitalia che ha radici proprio nella Repubblica dominicana, era assolutamente incomprensibile dal punto di vista economico: «Essendo una delle prime venticinque ambasciate italiane nel mondo, con ben 8500 registrati all’anagrafe degli italiani all’estero, la nostra ambasciata si autofinanziava ampiamente», garantisce il direttore Ricky Filosa. «La Farnesina ha poi aperto una nuova sede in Mongolia dove l’Aire conta solo 32 iscritti. Un’evidente assurdità».
AMBASCIATA SVENDESI. Forse un motivo per il taglio c’era, anzi due. Il primo era quello di minimizzare l’inchiesta in corso su un traffico di visti che Giro ha pudicamente definito «forti irregolarità»: secondo un articolo del Fatto Quotidiano «avrebbe fruttato non meno di 30 milioni di euro» e avrebbe portato l’ambasciatore Arturo Oliveri a lasciare con discrezione il servizio. Il secondo motivo? I quattrini. Con la chiusura della sede dominicana si sarebbero infatti liberati un paio di immobili che la Farnesina puntava a vendere, insieme a qualche terreno, per fare cassa. Peccato che quei beni al sole, dono di antichi emigranti, fossero vincolati alla presenza diplomatica italiana sull’isola. E che gli italiani di Santo Domingo fossero pronti, per difenderli, a trascinare il ministero in tribunale.
RISPARMI FANTASMA. La guerra legale è stata dura su tutti i fronti. Persino il Tar del Lazio il 20 luglio 2015 si è pronunciato contro la chiusura: «Non si comprende, alla luce delle dimensioni della sede di Santo Domingo e dell’interesse economico che tale territorio ha per molte imprese italiane, la scelta di sopprimerla», hanno scritto i giudici. Anzi, la decisione è «illogica e incoerente con le finalità indicate nello stesso decreto» di soppressione: i famosi risparmi annunciati dalla Farnesina non esistono («Il vantaggio che si dichiara in termini economici non è correttamente calcolato») e l’ «invarianza di servizi» che era stata garantita non si è mai vista.
SPRECHI INTERNAZIONALI. La Farnesina ha fatto ricorso al Consiglio di Stato, che a gennaio 2016 le ha dato pure ragione; ma la situazione nei Caraibi si è nel frattempo fatta così insostenibile che Palazzo Chigi ha dovuto rimangiarsi la soppressione. Ma quanti soldi sono stati buttati in questi due anni? Filosa prova a fare qualche conto: «Sicuramente c’è un grosso passivo per lo Stato. Bisogna ricostituire l’intero organico del personale e rinnovare tutto l’arredamento e le attrezzature informatiche dismesse».
CHI SPENDING DI PIU’. Aggiungiamoci i costi per ripristinare le linee telefoniche, i collegamenti telematici e le comunicazioni protette con Roma (ci vuole l’intervento di tecnici specializzati), più il restauro degli immobili abbandonati per due anni. E, infine, il trasloco di quelle 40 mila pratiche amministrative (fascicoli consolari, pratiche di visto e faldoni di amministrazione contabile) che avevano costretto Panama ad affittare una sede più grande. Insomma, una Caporetto contabile. Alla Farnesina la spending review si fa così.
Anna Morgantini per ilfattoquotidiano.it
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