Cosa non si fa per ottenere uno sconto di pena, un salvacondotto, un alleggerimento del duro soggiorno carcerario. Ormai il fenomeno del pentitismo è diventato una moda; io parlo, invento qualcosa di accattivante, dico quello che i magistrati vogliono sentirsi dire e in cambio (anche dopo aver assassinato 50 poveri cristi) me la godo in cella o – meglio ancora – in qualche località (balneare) segreta sotto falsa identità.
I dissociati della NCO (Nuova Camorra Organizzata), ormai ridotta a brandelli a causa di un Raffaele Cutolo (in quel periodo) isolato sull’Asinara per volontà di Sandro Pertini, hanno “ucciso” a suon di menzogne il caro e compianto Enzo Tortora, nato a Genova il 30 novembre 1928 e perito prematuramente il 18 maggio 1988 a Milano, dopo enormi sofferenze morali e fisiche. Era il “padre spirituale” di Portobello, storico programma TV che nessuno potrà mai dimenticare, anticamera, come poi si è più volte ribadito, di format di successo quali Stranamore, Carràmba, I cervelloni o Chi l’ha visto. Quei “signori” di nome Giovanni Pandico e Pasquale Barra detto “O animale”, ex braccio destro proprio di Cutolo, unitamente ad altri 17 ciarlatani e soprattutto Killer sanguinari, si sono inventati di sana pianta un coinvolgimento di Tortora in affari illeciti totalmente inesistenti e a lui praticamente ignari. Venne implicato nella maxi-operazione anti-camorra che spiccò 856 mandati di arresto in 33 provincie italiane con uno spiegamento di 10 mila carabinieri. Tra gli altri vennero interessati anche Renato Vallanzasca, il presidente dell’Avellino Calcio, gran parte del quartier generale (a Ottaviano) dei Cutoliano e 357 uomini già detenuti nei penitenziari partenopei. Traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico, queste le assurde accuse che venerdì 17 giugno 1983, hanno sottratto la libertà al Dott. Enzo Tortora, giorno in cui venne buttato giù dal letto alle 4 del mattino, presso l’Hotel Plaza di Roma, e ammanettato davanti agli occhi dell’opinione pubblica in un modo a dir poco disumano.
Nonostante, successivamente, tutte le dichiarazioni furono considerate inesistenti e a suo carico pendeva la sola prova di un’agendina trovata ad un camorrista con scritto Tortona e non Tortora con annesso numero telefonico non riconducibile al conduttore ligure, agli inquirenti sembra inspiegabilmente bastare a tal punto da rinchiuderlo da INNOCENTE per sette lunghi mesi a Regina Coeli e Bergamo. Una vergogna inaudita che lo rende, in assoluto, il caso (uno dei tanti) di malagiustizia italica per antonomasia. Anche la furia dei giornali e di tutto il comparto della stampa nazionale è da ritenersi responsabile, poiché reo di aver cavalcato senza ritegno l’onda sfrenata di uno scoop altamente disonesto e decisamente diffamatorio.
Nel mese di aprile del 1984 il famoso conduttore viene eletto Eurodeputato per il Partito Radicale, di cui ne divenne – di fatto – anche Presidente e, l’anno seguente, il 17 settembre 1985 è condannato in primo grado a dieci anni di reclusione. Dopo tale sentenza, con grande onestà intellettuale, si dimette dall’incarico, rinuncia all’immunità e attende l’esito degli altri gradi in regime di arresti domiciliari. Ma la verità non esita a venir fuori. Il 15 settembre 1986 Enzo Tortora viene assolto con formula piena dalla Corte d’appello di Napoli perché ritenute infondate tutte le falsità a suo carico, e – dulcis in fundo – l’altra assoluzione, in Corte di Cassazione, arriva il 13 giugno 1987. Da qui l’idea del referendum sulla responsabilità Civile dei magistrati o legge Vassalli portata in piazza a gran voce da tutti i sostenitori; Radicali di Pannella, mondo dello spettacolo (Modugno, Pippo Baudo, Piero Angela, Leonardo Sciascia) ma soprattutto dai cittadini che, per l’80%, si schierano a favore della vittima “eccellente”. La bufera mediatica su Tortora ha indignato tanti e, tutt’ora, è fonte di imbarazzo per una magistratura talvolta troppo superficiale o – peggio ancora – ideologicamente strumentalizzata. Ma evidentemente all’epoca serviva un nome di spicco, un capro espiratorio, una personaggio da sacrificare, per dare sale ad un’inchiesta poi risultata lacunosa in un’infinità di punti. A poco sono servite nel 2010 le scuse alla famiglia da parte del pentito Gianni Melluso, il quale conferma le menzogne tirate in ballo da Pandico e Barra. Ormai il caos giornalistico aveva distrutto non un professionista della TV, non un politico, non un volto conosciuto e amato dalla gente ma un uomo profondamente onesto con il prossimo ma soprattutto (cosa ben più importante) con se stesso. Durante il calvario, in uno dei suoi interventi, lancia un appello accorato alla Corte, che oggi, ancor più di ieri, ci appare altissimo per valori e senso di giustizia: “Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi”.
Che il buon Tortora sia stato assassinato moralmente e fisicamente è fuori dubbio. Da capire ora per volere di chi; di Barra, Pandico e gli altri criminali o di una malagiustizia che, dall’arresto fino al primo grado, lo ha materialmente distrutto? Lo chiediamo a Francesca Scopelliti, non una donna qualsiasi, non qui in veste di esponente di rilievo del partito Radicale, già segretario del Senato della Repubblica, vicepresidente della commissione speciale per l’infanzia, componente della commissione difesa ed eletta in Lombardia e Marche dal 1994 al 2001 a Palazzo Madama per i Radicali e successivamente per Forza Italia, ma da persona che ha vissuto in prima linea l’interva vicenda, essendo, in quei tragici momenti, la straordinaria compagna di Enzo Tortora.
Sig.ra Scopelliti, innanzitutto grazie infinitamente per la sua disponibilità. E’ un onore averla tra noi proprio mentre dedichiamo questo tributo al suo ex compagno. Una voce così diretta e sentita sicuramente ci può aiutare per comprendere l’intera questione, soprattutto quando si tratta di responsabilità. Per concludere ci aiuti a capire cosa accadde quella nottata di 33 anni fa, con qualche suo ricordo e con un’analisi personale che – sicuramente – in tutti questi anni si sarà sicuramente fatta. In questi giorni, in occasione proprio del 28° anno della morte di Enzo, crediamo che sia quanto mai opportuno e appropriato.
Francesca Scopelliti:
“I magistrati napoletani che hanno inquisito Tortora sono stati arroganti e protervi ma anche sfortunati: perché non poteva capitare loro un uomo più innocente. Un uomo che non aveva mai preso una multa o pagato una bolletta con ritardo, mancato di rispetto al vicino di casa o al vigile. Un uomo che aveva un grande rispetto delle istituzioni, che amava la fanfara dei bersaglieri e l’inno dei carabinieri, che si inorgogliva dell’operato dei soldati nelle missioni di pace, che per una insaziabile curiosità si era formato una cultura come pochi e non amava essere incluso nello star system dello spettacolo. Lui si sentiva semplicemente un giornalista della carta stampata e televisivo.
Un giornalista che non ha mai rinunciato a dire ciò che pensava anche a costo di perdere il posto di lavoro: chi al suo posto avrebbe accusato la Rai di essere un baraccone politico, un jumbo guidato da un gruppo di boy scout sapendo che la Rai lo avrebbe licenziato? E allora sorge naturale una domanda: può un uomo così libero mettersi al servizio di un capobanda, anche se si chiama Raffaele Cutolo?
La sua vita è sempre stata un esempio di qualità, di eccellenza: è stato un giornalista televisivo capace di sperimentare nuove formule che ancora adesso fanno la fortuna di tante trasmissioni. Da imputato, seppur innocente, ha vissuto con dignità (dolorosa certo) la sua condizione di detenuto trasformando il suo caso giudiziario in un caso più ampio che riguardava tutto il sistema Italia facendosi portavoce della battaglia per la giustizia giusta. Da parlamentare, dopo una “preannunciata” condanna a 10 anni, si è dimesso per tornare in galera e consegnarsi ai suoi giudici da libero cittadino: chi lo avrebbe fatto? Ecco questo è Enzo Tortora: un esempio da ricordare e da far conoscere ai giovani ancor più oggi quando è sempre più difficile trovare persone dalla vita esemplare da prendere come parametro per i nostri figli.
Ad accusare Tortora le menzogne di 17 farabutti e il libero convincimento dei magistrati napoletani Lucio Di Pietro e Felice Di Persia.
Una montagna di bugie che tiene Enzo in galera (tra Regina Coeli e Bergamo) per sette mesi e altrettanti agli arresti domiciliari in via dei Piatti a Milano: non uno straccio di prova, non un riscontro, non un’indagine alla ricerca della verità, non una intercettazione, ma solo menzogne, calunnie, false accuse precostituite e propagandate da giornalisti complici e asserviti alla procura. Perché? Perché Tortora doveva essere colpevole. Colpevole di essere innocente, ma colpevole.
Il 17 settembre del 1985 Luigi Sansone, presidente della decima sezione del tribunale di Napoli, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Diego Marmo, condanna Enzo a 10 anni di galera: una sentenza che vede alcuni giornalisti (qualcuno è costretto a tagliarsi i baffi per aver perso una scommessa!) brindare e festeggiare.
In Appello la sentenza viene ribaltata, assoluzione con formula piena: Michele Morello, giudice a latere del processo in una intervista disse: “Per capire bene come era andata la faccenda, ricostruimmo il processo in ordine cronologico: partimmo dalla prima dichiarazione fino all’ultima e ci rendemmo conto che queste dichiarazioni arrivavano in maniera sospetta. In base a ciò che aveva detto quello di prima, si accodava poi la dichiarazione dell’altro, che stava assieme alla caserma di Napoli. Andammo a caccia di altri riscontri, facemmo circa un centinaio di accertamenti: di alcuni non si trovarono riscontri, di altri trovammo addirittura riscontri a favore dell’imputato”. La sentenza di assoluzione fu confermata poi in Cassazione, ma il danno era fatto e il male aveva già preso il corpo di Enzo.
Quei signori che lo hanno accusato e condannato, innocente, hanno fatto carriera. Enzo è morto. La causa è stato quel male che lo aveva colpito, come un proiettile, con l’avviso di garanzia e la galera. Un brutto male che ha voluto dominare per assolvere a impegni importanti: ottenere il pieno riconoscimento della sua innocenza e uscire a testa alta da quella vergognosa inchiesta napoletana, portare nelle sedi istituzionali la denuncia della carcerazione preventiva, lo scandalo delle carceri, ritornare in Rai. Doveva soprattutto portare a termine la campagna per il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati: un referendum vinto nel 1987 con una stragrande maggioranza ma tradito poi da una legge inadeguata quanto inapplicata. Tradimento che Enzo non ha vissuto: il 18 maggio 1988 è arrivato prima”.
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