Giangi Cretti, presidente FUSIE – Federazione Unitaria Stampa Italiana all’Estero. Qual è, oggi, la situazione della stampa italiana oltre confine?
“Sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Non sembri irriverente addomesticare i versi di una poesia di Ungaretti, che come sappiamo è stata scritta in riferimento a ben più tragiche situazioni (che per altro qualcuno sembrerebbe intenzionato a farci rivivere). Circoscrivendo la mia valutazione ai periodici (per i quotidiani, che, tra l’altro, godono di un ben diverso sostegno economico pubblico, infatti il discorso andrebbe tarato diversamente), ritengo, che, con tutte le differenze del caso, questi versi rendano bene la situazione di precarietà in cui si trova buona parte sia delle testate italiane edite e diffuse all’estero, sia di quelle edite in Italia e diffuse prevalentemente all’estero. Passando dalla poesia alla prosa: se le prime stanno male, le seconde non stanno molto bene.
Quanti sono i quotidiani italiani all’estero? Quanti i periodici?
I quotidiani sono cinque: due in America del Nord, due in quella del Sud e una in Europa, in Croazia. I periodici, perlomeno quelli riconosciuti formalmente dal Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri (DIE), sono oggi un’ottantina. Una quindicina editi in Italia e diffusi prevalentemente all’estero, i restanti editi e diffusi all’estero.
Quali sono le più grandi difficoltà per i piccoli e grandi editori italiani nel mondo?
Premetto che, per quanto alcuni aspetti possano essere comuni anche ai quotidiani, le mie considerazioni si riferiscono esclusivamente ai periodici, una realtà composita – pertanto, tutt’altro che omogenea, in funzione anche del contesto sociale, geografico e storico di cui sono espressione – della quale prioritariamente si occupa la FUSIE.
Fin troppo facile dire che scarseggiano le risorse economiche, che, comunque, restano fondamentali. Scompare, salvo eccezioni che notoriamente confermano la regola, la pubblicità; si riducono a testimonianza gli abbonamenti. Queste altro non sono che conseguenze: delle mutate e moltiplicate modalità di produzione e fruizione dell’informazione; della frammentazione dei pubblici potenziali e della difficoltà di intercettarne l’attenzione; della perdita di autorevolezza delle testate, che paradossalmente deriva da un dato positivo: è indirettamente proporzionale al superamento delle difficoltà essenziali che le nostre comunità hanno incontrato nella fase di emigrazione. È infatti archiviato, ed è un bene, il tempo in cui le testate svolgevano una concreta funzione di servizio, spesso supplente dell’assenza istituzionale, costituendo un solido riferimento di orientamento, di indirizzo e di tutela. Oggi queste funzioni o sono superate o vengono svolte da enti o strutture specificamente preposti.
Resta immutato, e per certi versi ancor più pressante, il bisogno di veicolare informazione: affidabile, credibile. Per farlo, è necessario trovare una nuova sintonia con i destinatari di questa informazione. Sintonia di contenuti e al contempo di strumenti. Vista la velocità con la quale oggi si consuma l’informazione diventa un compito difficile, persino arduo, soprattutto per i periodici. Che devono aver ben chiari i loro obiettivi e naturalmente ripensare, ridisegnare, adeguare la loro strategia editoriale. Impresa tutt’altro che facile, se pensiamo che molte testate condizionano la loro esistenza ai contributi del DIE. Non completamente metabolizzata, per quanto indifferibile, è la convivenza con il WEB – di cui si percepisce ancora quella che nei fatti è un’insostenibile concorrenza – dalla quale potrebbe scaturire un rapporto virtuoso di mutuo soccorso.
Talvolta i Comites – non tutti, per fortuna – non riescono a comprendere fino in fondo che il loro voto, previsto per legge quando una testata richiede contributi pubblici, deve basarsi su criteri quali, per esempio, la reale diffusione del quotidiano (o del periodico). Devono anche tenere in considerazione un altro aspetto: i contenuti pubblicati sono di interesse per la comunità italiana residente? Non deve e non può, tuttavia, interferire con la linea editoriale. Come glielo spieghiamo questo concetto ai Comites, in maniera semplice?
Sono consapevole, lo siamo sicuramente tutti, che questa competenza prevista dalla legge istitutiva dei Comites (non di voto, ma de facto e de jure di un parere, non vincolante) si sia prestata, e ancor in taluni casi si presti, non solo ad applicazioni pretestuose, talvolta rischiando che si insinui un radicato luogo comune secondo il quale “la legge si interpreta per gli amici e si applica nei confronti dei nemici”. La cronaca ci ha raccontato di difficili convivenze fra presidenti di Comites ed editori, sfociate in denunce e alimento per tensioni strumentali che si sono trascinate nel tempo.
Non mi pare, al netto di posizioni preconcette, che sia difficile comprendere che il parere, non vincolante, ma pur sempre obbligatorio, debba essere espresso in base a criteri oggettivi, che possano sintetizzarsi nell’effettiva presenza e diffusione della testata nella circoscrizione di competenza del Comites. Qualsiasi altra considerazione relativa al gradimento dei contenuti è per sua natura soggettiva, pertanto, fisiologicamente opinabile. È una valutazione, questa, che spetta ai lettori: sono loro che giustificano l’esistenza di una testata. Senza lettori non c’è testata.
Chiunque pensi che oggi all’estero ci siano risorse per pubblicare una testata senza un pubblico di riferimento – cosa per altro a suo tempo avvenuta in Italia – non ha contezza di quanto ciò costi in termini di impegno umano, finanziario e di tempo.
Allo stesso modo, del tutto infondata, anche se purtroppo ciclicamente riesumata, la convinzione che taluni editori di periodici all’estero si possano arricchire grazie ai contributi pubblici. È una generalizzazione, e come tale incline all’enfasi, figlia di pregiudizi basati su azioni truffaldine, che ci sono effettivamente state, ma che rappresentano delle eccezioni, condannabili e talvolta anche condannate, e appartengono ad un passato ormai remoto, sostanzialmente improponibili oggi.
Tornando ai Comites, è bene chiarire anche che non spetta a loro esprimere un parere sulla tenuta contabile amministrativa delle testate. Questa è una competenza esclusiva del DIE.
A proposito di contributi: ormai arrivano con un enorme ritardo. Addirittura dopo oltre due anni…
Purtroppo, e questo non vale per i quotidiani, l’erogazione dei contributi da parte dello Stato avviene, ma è una costante, con eccessivo ritardo. C’è stato un momento in cui sembrava che la situazione potesse migliorare, ma poi la pandemia per giunta coniugata con l’applicazione della nuova normativa – che nonostante si riferisca ad attività svolte all’estero, realtà di suo tutt’altro che omogenea, resta comunque ancorata ad una visione burocratica italiana – ha comportato che la situazione peggiorasse e i tempi si dilatassero ulteriormente.
A ciò si aggiunga che talvolta gli editori fatichino non poco, per ragioni anche oggettive, ad adeguarsi alle nuove disposizioni, per cui talvolta la documentazione richiesta è incompleta se non addirittura inadeguata, oppure non tradotta in italiano come esplicitamente richiesto. Ciò comporta un supplemento di istruttoria che prende tempo, anche perché succede che non sempre la rete diplomatica consolare, che il Dipartimento, non avendo competenza sul territorio estero, coinvolge per specifici chiarimenti, fornisce risposte non sempre tempestive.
Va detto anche che, fintanto che non sono concluse tutte le istruttorie, non si sa quante siano le testate ammissibili al contributo e di conseguenza non si possa procedere con la cosiddetta chiave di riparto per definire l’ammontare dei contributi spettanti alle singole testate.
Stante questa situazione, che, pandemia a parte, era ampiamente annunciata, non si riesce a comprendere la ratio che ha indotto ad abolire la commissione che, nella fase di verifica, affiancava i funzionari del DIE al solo scopo di contestualizzare le testate, aiutando a comprender la realtà nella quale operano, riducendo il rischio di possibili malintesi, accelerando le relazioni, sostanzialmente contribuendo a semplificare le operazioni.
Per la stessa ragione, non si capisce perché emendamenti tesi a ripristinare detta commissione, – senza che questo comportasse alcun tipo di spesa per lo Stato, e sulla cui funzione ausiliaria concordano gli stessi funzionari – siano stati puntualmente ritenuti inammissibili.
Come mai secondo te nessuno degli eletti all’estero pensa a difendere la stampa italiana nel mondo, in questo senso? E non parliamo di casi specifici, ma dell’intera categoria. Osserviamo, per esempio, che quando si tratta di patronati o enti gestori dei corsi di lingua italiana, la difesa da parte dei parlamentari è netta: si fanno sentire, intervengono pubblicamente, prendono le loro difese. Gli editori italiani all’estero, in particolari quelli più piccoli, invece sembrano essere totalmente abbandonati a se stessi. A loro sembra non pensare nessuno. Eppure i nostri politici eletti oltre confine ci tengono sempre molto ad essere presenti su agenzie e testate dedicate… Come potremmo svegliarli dal loro tepore?
Questione di… forza contrattuale, come si sarebbe detto una volta. I patronati sono generalmente espressione di sindacati. Lo stesso, seppur in modo parziale e differenziato, potrebbe valere anche per alcuni enti gestori, che oggi si vorrebbe chiamati promotori, i quali sono inseriti nel processo di promozione della lingua italiana. Che sappiamo essere parte di un disegno di proiezione del nostro paese al fuori dei patri confini, che, almeno a parole, tutti dichiarano vada sostenuto e sviluppato. Anche se poi qui basterebbe seguire i lavori di quelli che da qualche anno vengono chiamati ‘Stati generali della lingua italiana’ per capire di quale considerazione godano, in questo ambito e per le istituzioni italiane, gli enti gestori alias promotori. Per non dire delle pubblicazioni edite e diffuse all’estero, del tutto ignorate, per quanto indiscutibilmente da sempre veicolo della lingua italiana fuori d’Italia.
Anche quest’ultimo aspetto è sintomo di quale sia la reputazione di cui godono queste testate. A vari livelli ritenute un retaggio di un passato superato, tollerate come residuali, buone per i sopravvissuti e i reduci di un fenomeno migratorio che muoveva soprattutto braccia, mentre oggi pare stimoli la mobilità di cervelli, notoriamente sedotti e profilati dall’ossessiva fruizione delle nuove tecnologie. Sopportate se allineate al pensiero dominante, funzionali, va da sé in modo alternato, se grancassa di questo o quell’interesse. Consegnate alla memoria che è sempre più un omaggio rituale e sempre meno un dovere, un fondamento per la costruzione civica di un’esperienza collettiva.
Dentro questo scenario – che può sembrare pessimista solo per un ottimista male informato – difficile immaginare che la politica (quale? Quella che pratica l’arte del possibile, oppure quella che persegue l’arte del risultato?) possa occuparsene o preoccuparsene. Ben che vada la subisce, sempre più come un fastidio, convinta comunque che ben presto se ne libererà.
Se questo è il quadro generale (pur con tutti i distinguo che la dialettica consente, questo è) cosa possiamo aspettarci dai parlamentari, segnatamente da quelli eletti nella circoscrizione estero? A loro volta, bene o male (soprattutto male), sono tollerati: già oggi ammessi al rango di pura testimonianza, ancor di più lo saranno alle prossime elezioni ridotti ad un numero umiliante, ulteriormente penalizzati da una modifica di legge che consente di eleggere all’estero anche chi l’estero l’ha vissuto in cartolina, da turista per caso o al seguito.
Comprensibilmente frustrati dal fatto di essere costretti ad esibire, loro malgrado, come massimo risultato politico un ordine del giorno o un’interrogazione; materialmente impossibilitati, vista anche la dimensione delle loro aree di competenza, a rappresentare e a creare attenzione ed eventuale consenso attorno alle tematiche e alle problematiche che toccano il composito e variegato mondo degli italiani all’estero, è naturale e per certi versi fisiologico che si concentrino su questioni che fanno maggior rumore, elettoralmente più spendibili, quali i servizi consolari, la promozione della lingua, le varie tasse e canoni legate all’abitazione in Italia, di cui, tra l’altro, molti italodiscendenti vorrebbero volentieri liberarsi.
Del sostegno alla stampa nessuno si fa carico, perché superficialmente ritenuta una battaglia di retroguardia: da un lato ci si accomoda sul fatto che oggi l’offerta sia talmente vasta, per merito (per colpa?) delle nuove tecnologie, per cui non ha più senso occuparsi di qualcosa che si ritiene sorpassato, dall’altro si coltiva la comoda convinzione, magari temporanea, miope, interessata, che oggi vale la legge del mercato, gridando urbi et orbi (agli orbi e ai sordi?) che il sostegno pubblico vada annullato, stabilendo di fatto il principio che solo chi ha i soldi possa creare o gestire i canali per la (dis)informazione.
Sei stato chiarissimo. Preso atto di tutto questo, che futuro vedi per le testate italiane all’estero, grandi e piccole?
Dopo quello che ho detto, in modo laconico, mi verrebbe da rispondere: quello che sapranno ritagliarsi autonomamente. Senza dubbio avvalendosi delle potenzialità enormi, che fanno il paio con gli altrettanto enormi rischi, offerte dalle nuove tecnologie. Comunque un futuro complicato. Qualche decennio fa era molto più semplice: se escludiamo alcune circoscritte esperienze di radio e tv, all’estero l’informazione era veicolata sulla carta: si scriveva, si stampava e si distribuiva. Con quello che ciò significava in termini di infrastrutture, di tempo e di costi. Oggi, a quanto pare, è sufficiente digitare qualche pensiero, o presunto tale, meglio se provocatorio e poco importa se verificato, si schiaccia un tasto et voilà, inondi il mondo di notizie. Vere o false è irrilevante: l’importante è farle circolare.
Siamo ancora nel bel mezzo di una bulimica euforia tecnologica – non a caso la parola d’ordine è transizione -, dalla quale si uscirà (qua e là qualche segnale lo si coglie) quando si sapranno governare le straordinarie potenzialità e controllare i rischi. Per farlo è necessaria una sorta di evoluzione culturale: degli editori, dei lettori, delle istituzioni, della politica. Un’evoluzione che in quanto tale non giungerà mai a compimento e che pertanto va puntualmente e costantemente accompagnata. Ma servirebbe tempo, un lusso che oggi ci si può permettere se le risorse lo permettono.
Nel frattempo le piccole, perché nei fatti sono piccole, testate degli italiani all’estero dovranno continuare a confrontarsi con il significato di un termine che negli ultimi tempi è entrato nel nostro vocabolario quotidiano: resilienza. Ciò non può prescindere dal sostegno pubblico, ma presuppone una rinnovata capacità di produrre e veicolare informazione, in qualche modo proponendosi come animatori di una nuova consapevolezza di cui devono riappropriarsi i lettori.