Per l’ottava volta Tim Burton e Johnny Deep sono insieme. “Dark Shadows” è basata sull’omonima serie americana cult degli anni ’60, virata in soap, con un protagonista dandy del diciottesimo secolo che, dopo essere stato sepolto vivo da una strega innamorata, si risveglia nel 1972, tramutato in vampiro.
Burton aggiunge un ingrediente estraneo all’originale televisivo, un leggero e purissimo umorismo, che rende il film stupendo, con squisiti viraggi operistici che svariano dal kitsch al melodramma.
Sappiamo che Tim Burton e Quentin Tarantino, oltre a Madonna, da anni si sono dichiarati fan della serie tv e che da bambino Johnny Depp fu così ossessionato dal personaggio di Barnabas Collins da voler diventare come lui.
Ora c’è riuscito e sullo schermo ritorna grande, dopo la debacle di “The Rum Diary” uscito da poco in Italia, dove la sua interpretazione del giornalista Paul Kemp nel riadattamento di un romanzo di Hunter S. Thompson, ha convinto poco.
A dirla tutta non aveva fatto di meglio neppure in “The Tourist”, noioso e prevedibile thriller del 2010, accanto ad Angelina Jolie, mentre qui torna ai livelli di “Edward Mani di Forbice” (1990).
E’ sballato e divertente come nei film delle origini e ricorda i personaggi di quando stava con Kate Moss e Winona Ryder, prima della Paradis, conducendo una vita da eterodosso dissoluto.
Il vampiro spaesato del film, oscilla, con buone idee, tra il dark tipico del regista, i toni emo e le mani allungate e unghiute di Max Schreck (con una tenuta “da giorno” degna dell’outsider per eccellenza dello spettacolo moderno, Micheal Jackson), mentre l’accostamento con il mondo colorato del 1971 è a tratti un contrasto, a tratti un sorprendente arricchimento.
Un film da vedere, pertanto, anche se non siamo ai livelli del Burton migliore, quello che conquistava per essere in grado di trasportarci in altri mondi, con dinamiche romantiche eterne calate nella sensibilità contemporanea e, al tempo stesso, riuscire a parlare con un’ingenuità commovente di desideri, aspirazioni e dolori di chi si sente diverso e peggiore, senza capire che sono gli uguali a essere quelli peggiori.
Resta comunque, anche se un poco in tralice, un poco nascosta dagli abiti neri di pelle, i castelli gotici o la nebbia nei boschi tetri, ciò che tutto quest’immaginario rappresenta nella sua produzione migliore, ovvero la lotta contro la dittatura di un pensiero e uno stile di vita omologato color pastello e dal pratino tagliato, che schiaccia l’individualità ed emargina la diversità invece che coltivarla come valore. (CDS)
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