Sembra avvicinarsi a passi felpati l’avvio dell’Autonomia differenziata, una iniziativa patrocinata, come noto, dal Ministro per gli Affari Regionali e l’Autonomia Roberto Calderoli, una riforma di portata travolgente, che è diventata, quasi di soppiatto, legge dello Stato.
Le Regioni del Nord scalpitano già di impazienza e chiedono infatti il trasferimento immediato di nove delle ventitré materie di loro competenza – dalla protezione civile, all’istruzione, al commercio con l’estero, e via dicendo, con l’eccezione tuttavia delle materie per cui è prevista la definizione dei cosiddetti LEP (Livelli di prestazione essenziali) prevista per il 2026.
D’altra parte, le proteste della Toscana e delle Regioni meridionali, e i ricorsi davanti alla Corte di cassazione e alla Corte costituzionale per l’annullamento della legge, cui si aggiunge il paventato referendum abrogativo, annunciano un autunno e un inverno ricchi di scintille.
L’Autonomia, si dice, toglierà risorse al Mezzogiorno, condannando il Sud del Paese al sottosviluppo. Sotto il profilo delle ricadute economiche, si tratta di una lettura drammatica, ma anche, forse, troppo emotiva.
Il Sud è povero, ma non è poverissimo; ha una base industriale modesta, ma non irrilevante, produce il 30 per cento del PIL agricolo nazionale, senza contare il settore della pesca. Vanta, accanto a ottime università, alcuni centri di ricerca di riconosciuto prestigio.
La vera posta in gioco, se mai, è lo sbriciolamento dell’organismo statale, la nascita di piccole repubbliche semi-indipendenti, l’estinzione in prospettiva dello Stato unitario. Non a caso qualcuno ha parlato di finis Italiae.
È facile infatti prevedere che l’acquisizione da parte delle Regioni delle nuove competenze, e della connessa autonomia legislativa, toglierà significato ai Ministeri, al Governo, al Parlamento.
Una Cassandra in vena di battute potrebbe sostenere che allo Stato italiano toccherà la stessa sorte del mitico uccello dodo, che si è estinto per la sua stupidità.