Uno a tre. La maledetta proporzione italiana: un negozio apre e tre chiudono. Se continua così, in dieci anni saremo un Paese senza negozi. Una nazione con le serrande abbassate. Triste drammatica constatazione è il risultato di un’indagine della Confesercenti, basata su dati di fatto, sui numeri, non solo sulle parole. Roma è ampiamente in testa in questa classifica dei negozi che chiudono.
Il dato che la capitale espone è raccapricciante: 1.390 cessazioni nei primi quattro mesi dell’anno. Lo sconfortante record di Roma fa paio con il primato della Sicilia. L’altro polo di una crisi che rischia di radere al suolo il commercio in Italia: la Sicilia presenta il saldo negativo più pesante fra apertura e chiusure nel periodo gennaio-aprile 2013: – 1.557. Roba da far cadere le braccia. Davanti a questi drammatici dati, prende forza l’allarmante previsione della Confesercenti: se non si verificherà l’inversione di tendenza, l’Italia tra dieci anni non avrà più negozi. Meditate gente, meditate.
Maledetta proporzione autorizza, nel breve, una previsione parimenti avvilente. Una stima questa volta tragica in quanto non abbinabile ad una ripresa sia pure parziale dell’attività in Italia. Confesercenti prevede la chiusura di altri 43mila negozi entro la fine del 2013. Da gennaio a oggi in Italia hanno abbassato definitivamente la saracinesca 13mila esercizi commerciali. Un’inarrestabile moria. Nelle strade commerciali, quelle che un tempo erano le vie dello shopping, è un susseguirsi continuo di insegne spente. Il commercio in Italia ormai è privo di luce. Naviga a vista verso il buio totale.
I numeri suggeriscono considerazioni tutte negative. Nei primi quattro mesi dell’anno, da gennaio ad aprile, si sono registrate 8.006 apertura di attività a fronte di 20.756 chiusure. Il saldo negativo ad aprile è di 12.750 attività sparite dalla faccia del commercio. Confesercenti definisce il fenomeno una “desertificazione urbana”, che va assumendo le caratteristiche chiara di “emergenza sociale, economica, occupazionale”. Tenendo conto che ogni negozio che chiude impegna mediamente tre persone, 120mila posti i lavoro potrebbero sparire entro la fine dell’anno. L’allarmante negativo fenomeno si è esteso a macchia di leopardo. Riguarda ora tutto il territorio nazionale. Sì, tutte le regioni d’Italia, nessuna esclusa. Roma e la Sicilia, come detto, si sono prese la ledearship della negatività, tiene loro compagnia la Calabria. E la Campania? Punto di domanda legittimo, il commercio rappresenta da sempre un grave enorme problema a Napoli e dintorni. L’esame dei dati conseguenti deve tenere conto necessariamente della presenza e dell’influenza della malavita organizzata. La camorra compra negozi che chiudono e, attraverso società fittizie, li riapre rapidamente con altra ragione sociale: operazioni mirate al riciclaggio di denaro sporco. A Napoli le chiusure sono state comunque 1.365. In quanto a saldo negativo, in graduatoria si è sistemata alle spalle di Torino, Palermo, Milano. Perdono meno le attività sui litorali. Elementare, Watson. Il turismo è trascinante, funziona da volano e traino. Altrove, nella città, ai centri bui e deserti, poco sicuri, vengono penalizzati i clienti che non hanno la possibilità di andare ad approvvigionarsi ai centri commerciali. Stiamo parlando, ovviamente, delle popolazioni che appartengono alle fasce più deboli. Ne conseguono sofferenze e palesi incidenze dove la vecchiaia è superiore alla media. I vecchi della città e dei paesi della vecchia Italia. Dove, fra gennaio e aprile, il saldo fra attività aperte e chiuse è stato negativo per l’1 per cento; lo 0,6 nei centri più giovani. Le città e i paesi meno anziani d’Italia.
“Il Paese è a un passo dal baratro”, denuncia Confesercenti, che vede l’aumento dell’Ilva con gli occhi e l’anima preoccupati. “Passa al ventidue per cento significherebbe contrarre ancora di più i consumi e aggravare la crisi del commercio al dettaglio. Senza produrre gettito aggiuntivo per lo Stato”. La denuncia è un invito ad intervenire, a fare qualcosa prima che la situazione diventi irreparabile.
I commerciati cosa chiedono? Innanzitutto interventi urgenti finalizzati alla facilitazione della tenuta delle aziende, un’azione decisa sull’Iva riportando l’aliquota al venti per cento, l’abbassamento della tassazione sulle imprese, l’aumento della disponibilità di credito e l’avviamento di una semplificazione burocratica. Confartigianato va addirittura oltre. Scavalca Confesercenti in corsia di sorpasso. Vale la pena ascoltarne la sua denuncia e registrarla. “Quest’anno la pressione fiscale toccherà il 44,6% del Pil, da abbinare alla lotta alla burocrazia, che per le imprese ha un costo di 31 miliardi”. Una cifra che mette i brividi solo a sentirla nominare. Il brivido italiano ai confini col terrore.
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