In Italia rischia d’infuocarsi la discussione sulla cittadinanza nei riguardi dei giovani stranieri mescolando elementi ideologici (sui diritti fondamentali o i principi di civiltà) e dimenticandone altri forse più importanti. Il tema della discussione verte sulla possibilità di introdurre una sorta di ius soli, ossia il diritto di cittadinanza automatica per gli stranieri nati in Italia. Un tema, come si sa, molto controverso. Ritengo di gran lunga preferibile affrontare la questione con pragmatismo, chiedendosi per esempio se oltre al riconoscimento della cittadinanza automatica esistano altre possibilità per facilitare l’acquisizione della cittadinanza italiana, magari a semplice richiesta.
Mi pare inutile appellarsi ai «diritti fondamentali», se il «diritto di cittadinanza» non fa parte di questa categoria nemmeno nella famosa «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» del 1789 (elaborata durante la Rivoluzione francese). Né serve invocare i non meglio precisati «principi di civiltà». Tanto varrebbe attenersi alla realtà, evitare scontri ideologici e magari sociali, e ragionare sull’opportunità di dare comunque un esito soddisfacente a un problema serio e delicato.
Quanto sia difficile imboccare la strada dello ius soli lo dimostra il caso della Svizzera. Questo Paese, che da oltre cent’anni si confronta con i problemi di un’immigrazione di massa, in una fase critica della sua storia per la forte percentuale di stranieri, ha voluto tentare la soluzione del problema introducendo la possibilità della naturalizzazione automatica degli stranieri di seconda generazione. Nel 1903 fu approvata una legge federale che consentiva ai Cantoni (sovrani in materia di diritti civili) di applicare sul loro territorio il diritto di cittadinanza alla nascita. Ebbene, in forza di quella legge non c’è mai stata a quanto sembra alcuna naturalizzazione, per cui quella legge è stata abrogata.
Politica d’integrazione Il tema della cittadinanza nei confronti degli stranieri domiciliati in Italia e soprattutto di quelli di seconda generazione, ossia nati in Italia, è tuttavia inevitabile per ragioni politiche e di opportunità. Anzitutto per ragioni politiche, perché nessuno Stato democratico può tollerare a lungo andare una quota eccessiva di stranieri (dotati generalmente di meno diritti dei cittadini). Ma soprattutto per ragioni di opportunità: è di gran lunga preferibile per una società fondata sul consenso e sulla collaborazione poter contare idealmente sulla partecipazione (anche politica) di tutti i suoi componenti piuttosto che escluderne a priori una parte, rischiando persino di privarsi di contributi importanti e di alimentare il disagio sociale.
Il problema, per essere risolto con ampio consenso popolare, andrebbe considerato all’interno di una moderna politica migratoria. Purtroppo molti Stati, tra cui la Svizzera e da qualche decennio anche l’Italia, hanno pensato unicamente a regolamentare gli ingressi con le varie leggi sull’immigrazione, introducendo contingenti, controlli e misure di polizia. La Svizzera da alcuni decenni ha imparato con grandi benefici che un’efficace politica migratoria, pur continuando a tenere sotto controllo i flussi (contrastando ad esempio ogni forma di immigrazione clandestina), deve fondarsi soprattutto sull’accoglienza e sull’integrazione degli immigrati. Altrettanto, credo, dovrebbe fare l’Italia, tenendo conto della propria situazione specifica e del contesto europeo.
In quest’ottica trovo di buon auspicio nel nuovo governo italiano l’istituzione di un ministero dell’integrazione. A chi ne contesta l’opportunità bisognerebbe rispondere che l’integrazione è importante per gli immigrati, ma soprattutto per l’Italia e più in generale per l’Europa. In un Paese e in un continente che mira all’unità non possono convivere a lungo pacificamente persone di serie A e di serie B. Tanto vale che siano tutte di serie A, ossia persone che si sentano accettate, rispettate e stimate, sebbene temporaneamente prive dei diritti politici.
Integrazione e cittadinanza Una buona integrazione è in assoluto anche la migliore predisposizione per l’ottenimento della cittadinanza, ossia della pienezza dei diritti anche politici. In Svizzera si è molto discusso nei decenni passati se la naturalizzazione, ossia l’acquisizione della cittadinanza, sia da considerare più un punto di arrivo che un punto di partenza. Oggi sembra che non sussistano dubbi: l’integrazione, almeno in una misura essenziale, rappresenta la principale condizione per la naturalizzazione.
Lungi da me dare suggerimenti alla ministra per l’integrazione Cecile Kyenge, ma conoscendo entrambe le situazioni, quella svizzera e quella italiana, non ho dubbi nel ritenere preferibile per l’Italia che si elabori dapprima e si implementi poi una condivisa ed efficace politica migratoria incentrata sull’integrazione. Tutto il resto (modificare leggi, cancellare reati, ecc.) sarà più facile. Nel quadro di questa nuova politica, dovrebbe risultare più facilmente risolvibile anche il problema dell’acquisizione della cittadinanza italiana da parte dei figli di stranieri già residenti stabilmente in Italia e ritenuti in certa misura integrati. Per offrire un modesto contributo alla discussione, in un successivo articolo cercherò di precisare meglio le linee guida della politica d’integrazione praticata in Svizzera con un certo successo.
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