E’ tornata a infuriare sui media italiani la disputa sulla cittadinanza ai figli degli stranieri. A dar fuoco alle polveri è stato Beppe Grillo che sul suo blog aveva scritto, per provocazione o convinzione non si sa, visto il personaggio: «Priva di senso la cittadinanza a chi nasce in Italia, anche se i genitori non ne dispongono: è una questione utile solo a fomentare lo scontro…».
La stragrande maggioranza degli intervenuti al dibattito si è schierata nettamente contro il comico del Movimento a cinque stelle. Non mi sembra, tuttavia, che la valanga d’interventi abbia apportato chiarezza all’intricata questione. Direi, anzi, che la confusione è aumentata perché il tema continua ad essere affrontato in termini molto generici e ideologici. Infatti, non vengono mai definiti chiaramente i termini del problema, né si affronta mai la questione di fondo del valore stesso della cittadinanza italiana in un’Europa sempre più integrata. Ancora, non vengono mai esaminate le modalità di ottenimento della cittadinanza: deve trattarsi di un atto dovuto (per il semplice fatto di nascere in territorio italiano) o di una concessione a richiesta o di una naturalizzazione condizionata (per es. all’integrazione dei genitori)?
In Italia: molta confusione Il tema è visto spesso come uno dei tanti terreni di scontro ideologico tra fautori legati prevalentemente ai partiti di centro-sinistra e oppositori collocati soprattutto tra i partiti di centro-destra. Tra i favorevoli c’è poi una parte che invoca a sostegno della propria tesi considerazioni di tipo strumentale, ad esempio, per non alimentare la xenofobia, per evitare le discriminazioni di altre persone «come noi», ma anche per non apparire fiancheggiatori della Lega Nord. Tra i contrari ci sono evidentemente coloro per i quali qualunque cambiamento rappresenta sempre un rischio e altri che considerano la naturalizzazione al massimo un atto di liberalità da parte dello Stato, non un atto dovuto.
A conferma della mancanza di chiarezza in questa discussione si potrebbero citare molte affermazioni che per la loro genericità non dovrebbero essere usate in un dibattito serio. Non ha senso, ad esempio, affermare che «chi nasce in Italia è italiano» oppure che la cittadinanza per un figlio di immigrati che nasce in Italia è un «diritto sacrosanto», perché un tale diritto non è previsto né dalla costituzione né da una legge dello Stato. Più corretta, invece, è l’affermazione del Quirinale che auspica «l’effettivo riconoscimento della cittadinanza italiana a quanti nascono nel nostro Paese da genitori stabilmente residenti». In questo caso infatti si tratta di un auspicio, un desiderio, legittimo, che ovviamente andrà esaminato alla luce di altre considerazioni di tipo giuridico, politico, sociale. Dire che la cittadinanza ai figli di stranieri è una «questione di giustizia e di civiltà» può essere un’opinione rispettabilissima, ma deve poter essere discussa insieme ad altre opinioni diverse.
In Svizzera: una legge mai applicata Quanto la questione della cittadinanza «automatica» dei figli di immigrati sia delicata e complessa lo dimostra la storia più che secolare e non ancora conclusa della legislazione svizzera in materia. Ricordarla può essere utile alla discussione in Italia.
In Svizzera se ne cominciò a parlare all’inizio del secolo scorso, in un contesto migratorio simile a quello dell’Italia di oggi, ma con alcune differenze sostanziali. La percentuale di stranieri, in costante aumento a causa dei grandi lavori ferroviari, era di poco superiore a quella che si registra oggi in Italia; la natalità tra gli stranieri era più alta di quella degli indigeni (come accade oggi in Italia); nella vita quotidiana, i figli degli stranieri non si distinguevano granché da quelli svizzeri.
La differenza più importante è forse rappresentata dal fatto che in alcune città elvetiche la percentuale di stranieri attorno al 1910 era così alta (fra il 30 e il 50%) da far paura, mentre in Italia resta comunque assai modesta. Un’altra grande differenza è data dal fatto che allora la Svizzera era ancora un Paese con una forte corrente emigratoria. Si parlava addirittura di «pericolo nazionale» che andava ovviato naturalizzando «obbligatoriamente» gli stranieri nati in Svizzera. Sembrava vitale compensare le partenze dei giovani emigranti svizzeri con «nuovi svizzeri» fin dalla nascita.
Una legge federale che procurasse alla Patria nuovi cittadini, già assimilati o assimilabili, sembrava la soluzione del problema, tanto più che avrebbe contribuito ad abbassare la percentuale degli stranieri, destinata altrimenti a crescere pericolosamente in maniera esponenziale. La legge fu approvata nel 1903. Essa consentiva ai Cantoni (sovrani in materia civile) di applicare una sorta di «jus soli», cioè il diritto alla cittadinanza a quanti nascevano nel proprio territorio da genitori stranieri immigrati purché ivi residenti da almeno cinque anni. Sembrava fatta apposta per agevolare non solo l’accesso alla cittadinanza in modo da ridurre la percentuale di stranieri, soprattutto nei Cantoni con un tasso particolarmente elevato, ma anche a debellare in tempo la nascente xenofobia legata alla paura dell’«inforestierimento».
L’esito fu catastrofico perché nessun Cantone applicò mai quella legge. Non piaceva «questo sistema di fabbricare svizzeri» e nessuno dava per scontato che chi nasceva in Svizzera fosse «assimilabile». Tutti i Cantoni preferirono continuare a naturalizzare solo quegli stranieri che dimostravano di essersi «assimilati» e ne facevano richiesta dando prova della loro libera scelta e della «spontanea rinuncia alla patria originaria».
Problema più culturale che giuridico o politico La richiesta di una legge che rendesse possibile la «cittadinanza automatica» agli stranieri di seconda generazione venne avanzata più volte durante tutto il secolo scorso, ma ogni tentativo di soluzione fu sbarrato dal voto popolare. Il tema non è stato tuttavia abbandonato. Resta ancora pendente, da alcuni anni, una proposta legislativa di una parlamentare italo-svizzera, Ada Marra, per la concessione della cittadinanza automatica almeno agli stranieri di terza generazione. Non è ancora approdata alla discussione generale, ma l’esito è incerto perché in Svizzera un «diritto» alla cittadinanza automatica fa paura.
Non si tratta evidentemente di un problema solo giuridico o politico (nemmeno in Italia), ma culturale. Tanto varrebbe impegnarsi maggiormente sul terreno dell’integrazione e facilitare l’acquisizione della cittadinanza a coloro che la richiedono e intendono rispettarla.
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