C’era una volta il made in Italy. Notevole esercizio di fantasia consente di dire che forse c’è ancora. Ma non più qui, da noi. Il made in Italy si è trasferito all’estero, qua e là nei cinque continenti. Cinquecento aziende italiane sono finite in mani straniere negli ultimi dieci anni. E in molti casi hanno creato nuovi posti di lavoro.
Un’autentica moria del made in Italy in Italia. Le industrie alimentari in Olanda, Svizzera, Francia, Spagna, Svizzera, Turchia. I nomi? Algida, Buitoni, Parmalat, Perugina, Riso Scotti, Pastificio Garofalo, Pernigotti, Star. L’arredamento made in Italy ora è presente in misura massiccia all’estero: Ceramiche Marrazzi e Poltrona Frau negli Stati Uniti, Pozzi Ginori in Finlandia.
I marchi Rex, Zanussi e Zoppas, Saeco si sono accasati in Svezia e nel campo degli elettrodomestici abbiamo assistito, nei giorni scorsi, al trasloco di Merloni negli Stati Uniti. Indesit è diventata americana, un’operazione da 758 milioni a segnalare la caduta dell’ultimo baluardo del capitalismo familiare in Italia.
Commenti? Innanzitutto uno, decisamente fondamentale: per fare i capitalisti bisogna avere i capitali. Materia ormai non più reperibile nell’ambito dell’economia nazionale. Gli italiani non possono più fare i capitalisti. L’industria tricolore non c’è più. I soldi stranieri sotterrano la precaria, traballante, incerta economia italiana. Martini e Rossi è americana, Birra Peroni Sudafricana, San Pellegrino è svizzera, Spumanti Gancia russa, Chianti Classico Gallo Nero se l’è presa la Cina.
I soldi stranieri cambiano tutto, fanno saltare in aria come tappi le proprietà italiane. Ma le fabbriche e il lavoro restano, in buona parte. Come attesta la vicenda del Nuovo Pignone, comprato dalla General Electric statunitense, con Valentino (Qatar), Ducati (Germania). I cioccolatini Pernigotti sono dei turchi di Tokosoz, la Parmalat è francese e Loro Piana pure.
Messo insieme in dieci anni, quest’elenco dell’emigrazione all’estero del made in Italy comprende 500 nomi. Le aziende italiane non ne possono più, sono letteralmente scoppiate sotto l’aspetto economico, qualcosa hanno dovuto inventarsi. La realtà è questa, molto amara: i capitalisti italiani sono anonimi, senza blasone. Pirelli è una pubblic company con i russi Rosneft, destinati presto ad avere la supremazia. Arvedi e Marcegaglia aspettano che il gigante indiano Acelor-Mittal faccia la mossa determinante. Possono prendere con un solo colpo anche l’Ilva dei Riva. I cinesi di Shangai Electric hanno comprato il quaranta per cento di Ansaldo Energia; Ansaldo Breda e Ansaldo Sts sono concupiti rispettivamente dai francesi di Thales e dai cinesi di China Cnr. Krizia è già cinese.
Semplici assalti e definite acquisizioni fanno male al brand made in Italy. L’Italia è tenuta a fare i conti con variegati investimenti stranieri. E soprattutto con la mancanza di nuovi capitalisti, in un’economia che dovrebbe mettere in campo una forza che non ha: la capacità di liberarsi dalla dipendenza dalle banche.
Storica marca di lavatrici a marchio Ariston, Indesit è stata acquistata dal colosso statunitense Whirlpool. Fondata da Giovanni Borghi, il signor Ignis, Indesit Company è nata a Fabriano, nelle Marche. L’atto di nascita di Ariston è del 1930. Il decollo nell’85, certificato anche dalla sponsorizzazione della Juventus di Platini nell’87, quando Ariston rilevò la rivale Indesit. La famiglia Merloni, fondatrice del gruppo, ha accettato di vendere a Whirlpool il pacchetto azionario di maggioranza, 11 euro ad azione per 758 milioni in tutto. “Abbiamo messo gli interessi dell’azienda prima del tornaconto. L’offerta dei cinesi Sichuan era ben più generosa”.
Aristide Merloni, nipote del fondatore e figlio di Vittorio, ha trasformato l’azienda familiare in una multinazionale. Indesit è finita comunque in ottime mani, Whirlpool è un leader mondiale, un gruppo molto solido. Capitalizza 11 miliardi di dollari. Il matrimonio con Indesit consentirà la nascita del leader europeo degli elettrodomestici con circa 5 miliardi di fatturato e una quota di mercato superiore a Bosch-Siemens. Whirlpool si è impegnata a investire altri 280 milioni in Italia, ma i sindacati hanno proclamato lo stato di all’erta. Chiedono la tutela dei dipendenti. Comunque la prendi, cade l’ultimo baluardo del capitalismo familiare in Italia. Una vera tristezza: il made in Italy emigra definitivamente all’estero.
A questo punto, che fine faranno i nove stabilimenti Indesit che operano in Italia? Francesca Merloni, figlia di Francesco e nipote di Vittorio, vuole dare un segnale al territorio a cui è legata. Si tiene per sè una quota. Una testimonianza di fiducia nel gruppo e nelle sue persone per ripartire insieme verso un nuovo futuro. Cugini e fratelli hanno ceduto a Whirlpool per Indesit Company, lei ritiene di non dover tagliare il cordone ombelicale con la famiglia e con il territorio. “Non posso lasciare tutto agli americani. Ho conservato una piccola quota e resto socio importante di Ariston Thermo”. Di cui Francesca Merloni è amministratore delegato. I parenti hanno fatto una scelta sofferta, non solo redditizia, lei dice che non se l’è sentita. “Ognuno è fatto a modo suo”. Indesit è ora all’americana.
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