Mai come quest’anno la sezione parallela UN CERTAIN REGARD che Thierrry Fremaux fa crescere pian piano a fianco del concorso ufficiale ha dato l’impressione di essere il vero vivaio degli artisti di domani. La giuria presieduta dal danese Thomas Vinterberg avra’ le sue belle gatte da pelare per trovare un verdetto condiviso e soprattutto approvato dai cinefili, ma si muovera’ certo con maggiore liberta’ di quella del concorso maggiore avendo come scopo prioritario le valorizzazione di talenti nuovi o non ancora definitivamente consacrati e questa idea – sembra paradossale – si adatta bene anche a Sofia Coppola che e’ approdata all’apertura della sezione con un film quantomeno inatteso e ‘diverso’ come l’adrenalinico ‘Bling Ring’. Ma non e’ certo in questa direzione che bisogna guardare per misurare la qualita’ delle scelte del festival, giacche’ si sa da sempre che l’inaugurazione risponde a criteri diversi e a logiche promozionali molto precise. Con un terzo di opere prime (dunque disponibili anche per la Came’ra d’or che premia il miglior esordiente di tutto il festival), Un Certain Regard 2013 ha gia’ i suoi campioni: consacrati dai critici, dal mercato, dal consenso dei selezionatori di altri festival che sulla Croisette hanno ‘fatto la spesa’ per i loro appuntamenti futuri.
Innanzitutto ‘L’image manquante’ del cambogiano Rithy Panh che da anni lavora in Francia, fedele a una produttrice come Catherine Dussart capace di assecondare la sua ossessione per un tema drammatico (gli orrori dei Khmer rossi), suonando su una corda sola mille variazioni. Il che, in questo caso, produce un risultato molto vicino al capolavoro per emozione e intensita’ visiva. Le grandi rivelazioni dell’anno appaiono invece il cinese ‘Bends’ di Flora Lau (opera prima) e ”Omar’ del palestinese Hany Abu-Assad. Sono entrambe storie di confine e storie d’intensita’ amorosa che non puo’ approdare alla felicita’. La prima, ambientata in una delle ‘regioni speciali’ della Repubblica popolare cinese e l’altra sulla linea del muro di confine tra Israele e Palestina.
Sul fronte degli eventi, piu’ o meno annunciati, non ha certo deluso la nuova prova da regista di James Franco ‘As I Lay Dying’ dal capolavoro di William Faulkner, specie per quel tanto di sperimentale e innovativo che un divo consacrato ha voluto tentare mettendo a repentaglio la sua popolarita’; su un piano diverso si deve dire lo stesso di ‘L’inconnu du lac’ del francese Alain Guiraudie, certamente il film sessualmente piu’ esplicito sull’omosessualita’ visto al festival insieme a ‘La vie d’Adele’ di Abdellatif Kechiche in concorso. Tra le belle conferme che si segnalano nel settore delle opere prime c’e’ certamente ‘Miele’ di Valeria Golino (accolto piu’ che bene dalla platea internazionale) e il messicano ‘La jaula de oro’ di Diego Queimada-Diez (forte di una storia semplice ma di una potenza visiva fuori dal comune). Un’attenzione speciale restera’ infine per due cineasti ben noti al pubblico festivaliero che sono arrivati sulla Croisette con opere di grande intensita’ politica e reinventate con un linguaggio davvero personale. Si parla di ‘My Sweet Pepper Land’ del curdo Hiner Saleem e di ‘I manoscritti non bruciano’ dell’iraniano Mohammad Rasoulof. Nel descrivere il legame vita/morte, il dolore dell’esilio e il fallimento di una rivoluzione adottano l’uno la cifra paradossale del grottesco e l’altro quella sottile della metafora astratta. Ma in entrambi i casi e’ impossibile non avvertire l’urgenza di esprimersi di un artista che non puo’ sentirsi libero nella cultura che lo ha generato.
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