La 66esima edizione del Festival si è chiusa fra premi ben attribuiti, ottimi film e un par terre royale da fare invidia. Ma prima di archiviarla ancora un paio di cose. In primo luogo lo splendore fisico di Kim Novak, giunta per la versione reastaurata di “Vertigo” e che, il 26, ha ricevuto il premio alla carriera, una lunga carriera iniziata a 21 anni con una piccola parte in “La linea francese”, accanto a Jane Russel, per poi essere notata da autori più importanti, fino a sostituire Rita Hayworth, che aveva rifiutato, nel film “Criminale di turno”: il suo primo vero successo. Tra i suoi film più noti “L’uomo dal braccio d’oro”, “Noi due sconosciuti”, e “Quando muore una stella” al fianco di Rossella Falk e Valentina Cortese.
Considerata una specie di sintesi fra la Monroe e Grace Kelly, non piacque comunque ad Hitchock, anche se “Vertigo”, anche grazie ha lei, è rimasto nella storia del cinema ed il suo ruolo ambiguo e conturbante ha disegnato una autentica icona nell’immaginario colletivo.
Portando con classe i suoi 80 anni, ha dato, assieme a Sharon Stone, una lezione di stile a tante attrici di oggi o seminude o completamente sguaiate e svestite, esempio di una volgarità priva di stile, come il dito medio di Asia Argento, arrivata per il fuori concorso “Zulu” di Jérome Salle, ai fotografi.
Cadute di stile che riempiono lo star system di oggi e di cui il ritratto a seno nudo di Angiolina Jolie dopo la mastectomia preventiva, è disturbante esempio.
Un mondo vacuo e volgare, privo di contenuti e di stile, che Sorrentino con “La grande bellezza” ha collocato a Roma, ma ormai si può dire diffuso ed internazionale. Un mondo di teatralità senza buon gusto, di cinismo becero ed esplosivo, in cui non vi è che una morale: apparire piuttosto che essere.
Restano eccezioni, soprattutto fra i gran vecchi e fra questi spicca Roman Polanski, che migliora con gli anni e che a 75, firma un ennesimo capolavoro: il rifacimento di “Venere in visone” con la moglie Emmanuelle Seigner da urlo. Tratto da una da una pièce teatrale di David Ives, a sua volta ispirata ad un romanzo di John O’Hara che in originale si chiamava Butterfield, già portato sullo schermo da Daniel Mann nel 1960, con Elizabeth Taylor e Laurence Harvey, il film riscenegiato da Polanski è un gioco a parti alternate fra vittima e carnerfice.
E’ ancora grazie ad un grande vecchio che Cannes chiude in bellezza: grazie a Jerry Lewis ‘in persona’, il comico, il cineasta, l’autore più rivoluzionario d’America (l’attore più sexy, lo aveva definito Marilyn) che considera Burt Reynolds e Cary Grant le migliori commedianti femminili di tutti i tempi, gemma radiosa della comicità transmaschile e transfemminile, al di là e al di qua dei generi sessuali, cosa che mette in estremo imbarazzo i tanti reazionari e khomeinisti dell’immaginario, dentro e fuori gli schermi, che siano contrari o favorevoli al ‘matrimonio per tutti’: è il non matrimonio a destabilizzarli, il danzare indeciso tra i sessi e oltre.
A Cannes si è proiettato Max Rose, il nuovo film interpretato da Jerry Lewis e diretto da Daniel Noha, nella Sala del Sessantesimo anniversario, con un megatendone squassato dal vento e alla presenza del protagonista che è però apparso di cattivo umore, forse per la pioggia o perché tutti gli si assiepavano attorno, oppure perché sentiva la mancanza di occhi delicati e penetranti di tanti critici scomparsi quest’anno (non solo quelli di Rober Ebert), con troppi apologeti che fanno un brutto servizio al cinema e non solo ai festival.
Il film con Lewis è modesto, una storia tutto sommato semplice ma arricchita da una prova d’attore eccellente, in un continuo alternarsi di sorrisi e commozione. Dopo la proiezione, in conferenza stampa, Lewis si riprende ed è divertente, surreale, pieno di trovate, rivivificato dalla presenza di tante vecchie glorie ancora in grade spolvero: Claire Bloom, Kerry Bishé e Kevin Pollak, una corniche della vecchia Hollywwod, quando il cinema grondava gloria e stile.
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