Troppo facile. Lo "scudetto di riserva" – l’estenuante gara a quattro per un posto nei preliminari di Champions – l’ha vinto chi doveva, chi lo meritava: l’Udinese, domatrice del furioso Catania di Montella. Quanti annunci di battaglia da Lazio, Napoli e Inter, e invece il pugno da kappaò l’ha sferrato Totò Di Natale, il bomber di livello europeo che ha il solo difetto di essere italiano, per nulla affamato (perché s’accontenta del bene che ha) eppoi negato all’esibizionismo di categoria, al narcisismo che da sempre contraddistingue i goleador. Per la felicità (o la ratio) di Prandelli, va precisato che Totò s’è liberato anche di quella malcelata abulìa che lo rese incerto e poco significativo protagonista dell’Europeo 2008: se possibile, è maturato, è più forte, più scaltro, e gioca ovunque come se fosse al Friuli, anche meglio, e non gl’importa se alle spalle ha la squadra migliore o i pur sempre promettenti frutti del vivaio udinese. E’ diventato l’Uomo delle Meraviglie. Conto su di lui per rivivere all’Est le indimenticabili ore di Europa ’68.
Chiude, il campionato, anche in coda, con il successo del Genoa – direi del saggio, silente e operoso Gigi De Canio – che con lo spunto vincente del consumato Gila ha raddrizzato mille errori di vertice. Spiace l’addio alla A del Lecce, del grande Serse che ha animato per settimane la più ingarbugliata (e onesta) zona retrocessione che si ricordi. Cosmi vorrebbe restare alla guida di quella truppa rivitalizzata: come negarglielo? Il discorso vale anche per Reja: la sua Lazio ha sprecato il capitale che non aveva. Il Vecchio del campionato va in Europa League dopo aver battuto il giovanissimo Stramaccioni che ha un’Inter senza tituli e tutta da rifare.
Il lungo addio a Del Piero, al suo amico/compagno/rivale Pippo Inzaghi, a "Ringhio" Gattuso, all’Angelo dai Piedi Duri Nesta, all’ubiquo Zambrotta, al ferreo Di Vaio – con tante lacrime fra i protagonisti e gli spettatori allo Juve Stadium, a San Siro e al Tardini – ha restituito al campionato un’immagine umana, bella, positiva, commovente, emozionante; direi anche sincera, perché quando la palla gira e i calciatori ne sono magicamente attratti, ecco che si realizza il fatale connubio fra favola e realtà che piace tanto al popolo degli stadi e della tivù, ormai organizzata per trattenere i fedelissimi della sacra rappresentazione del gol fra le pareti domestiche: ieri è stata diabolicamente invitante l’offerta di assistere in diretta anche alle conclusioni del campionato inglese: e Roberto Mancini, profeta del resuscitato City, è entrato di forza nelle pagine del romanzo nostrano, nel film che vi sarà offerto dieci, cento, mille volte dalla macchina perfetta – e cinica, materialista – che l’ha prodotto. Poche note – doverose – sugli addii più significativi, a Torino e a Milano. Ho visto Andrea Agnelli applaudire commosso (?) Del Piero durante il pas d’adieu affrontato con la grazia sensibile di una ballerina scaligera; con lui, le ricchedonne di Casa Agnelli, da sempre (calcisticamente) innamorate di Alex. E allora, perché l’hanno liquidato? Costava troppo? Pensava troppo? Pesava troppo rispetto al peso di famiglia?
A Milano, invece, tutto regolare: se ne sono andati i Terribili Vecchietti che tanto hanno dato nel recente passato, molto hanno tolto nell’ultima stagione. Ho capito, a suo tempo, il disappunto dei milanisti per la sparizione di Paolo Maldini, un Del Piero forte e fiero poco portato alla commozione: i ragazzi che se ne vanno ora hanno scritto storie bellissime, e tali resteranno. Ma il presente… Mi torna in mente una battutaccia di Brera quando suggerì all’Inter di liberarsi del suo divino mancino: "Corso – scrisse – participio passato del verbo correre". Molti "via col vento". E domani, naturalmente, è un altro giorno.
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