Lingua italiana: la sua bellezza è riconosciuta universalmente e per tutto vale questa citazione da Thomas Mann, “Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull”, del 1954 : “In quello stesso momento diventai italiano e invece di sussurrante raffinatezza fui preso dal più focoso temperamento. Allegramente si levò in me quanto avevo […] mai sentito di suoni italiani, e mentre muovevo la mano davanti alla faccia con le punte delle dita chiuse, d’un tratto divaricandone tutt’e cinque le dita, mi misi a parlare con voce tonante e a cantare. E continuando in italiano: «Ma Signore, che cosa mi domanda? Son veramente innamorato di questa bellissima lingua, la più bella del mondo. Ho bisogno soltanto d’aprire la mia bocca e involontariamente diventa fonte di tutta l’armonia di quest’idioma celeste. Sì, caro signore, per me non c’è dubbio che gli angeli nel cielo parlano italiano. Impossibile d’immaginare che queste beate creature si servano d’una lingua meno musicale…»”.
Adoro la nostra bellissima lingua e mi batto contro l’uso (superficiale, esagerato, scellerato) di inglesismi e di altre parole straniere. È una battaglia perdente, anzi già perduta – ma non è la prima né, se avrò vita, sarà l’ultima tra quelle che mi sono impegnato a combattere, senza possibilità di successo. Non è masochismo, non è semplice amore per l’utopia – almeno spero. È un modo, concreto, per resistere, ritardare, ricordare che una buona idea resta buona anche se a vincere sarà qualcun altro.
Temo che la lingua italiana sarà travolta, fatta a pezzi, dilaniata: non per questo la lingua inglese, dilagante e dominante, mi risulterà più apprezzabile. Oggi dilaga l’inglese, lo spagnolo resiste, il francese si è arreso: domani, tra molti lustri, il cinese o l’indiano.
Ci sono vari spunti per valide riflessioni, proviamo a parlarne un po’. Ha scritto Leonardo Sciascia: “L’italiano non è semplicemente l’italiano. L’italiano è il ragionare”. Provo ad azzardare. Il primo motivo deriva dal fatto che non possiamo vantare più una cultura egemonica, o comunque di riferimento: l’egemonia culturale appartiene ai Paesi anglosassoni. Idem, cultura a parte, per tutto ciò che riguarda la politica: i numerosi riferimenti in inglese derivano dal carisma con cui siamo influenzati, da Paesi come Inghilterra e Stati Uniti, sia per il loro potere strutturale, sia per i loro ordinamenti più avanzati.
Mi sembra rilevante anche la nostra indistruttibile vocazione all’azzeccagarbuglismo, chiamiamola così, e che l’Accademia della Crusca mi perdoni: le parole straniere spesso funzionano come un velo, coprono il significato reale di un concetto. Nella produzione illimitata di inglesismi ci sono alcuni aspetti che maggiormente detesto. In primis il carrierismo dei manager rampanti, che nelle riunioni ci stordiscono con parole usate (ma ci si potrebbe esprimere meglio in italiano) dai loro colleghi anglosassoni. A seguire la nefasta deriva provocata dal “sentito dire”: il peggio ci arriva dai calciatori, ma anche i giovani disgraziatamente abboccano, per il cibo innanzitutto e per qualsiasi moda. Si fa un uso degli anglicismi in modo molto provinciale, ad esempio quante volte, invece di “stepchild adoption” si dice in Italia solo “stepchild”, o invece di “week end” (fine settimana non andrebbe bene?) si scrive semplicemente “we”?
Altre riflessioni, in difesa della lingua italiana. Almeno tre, per il momento.
1. Nel calcio, si dice spesso out anziché fuori, corner e calcio d’angolo si equivalgono, gol prevale su rete, per fortuna nessuno, a scanso di risate, dice penalty anziché rigore. Solo a Genova, tanti anni fa, prima che ci arrivassi io, anche nelle piazzette in mezzo ai caruggi, si usavano anglicismi, un po’ genovesizzati, come corna per corner, ensi per hands, fallo di mano. Ma dalla fondazione della prima squadra di calcio italiana ad opera di un gruppo di inglesi residenti a Genova era passato appena mezzo secolo e poi la squadra si chiamava e si chiama Genoa Cricket and Football Club. Ma ormai, come cantava Luigi Tenco, di quelleglorie passate s’è persa anche la memoria.
2. In Toscana gli inglesismi sono penetrati più sobriamente perché in quella regione gli abitanti, almeno quelli che vi sono nati e cresciuti, non amano le parole che finiscono con una consonante.
3. L’Accademia della Crusca negli anni ’70 ebbe gravi difficoltà, addirittura stava per chiudere: intervenne Indro
Montanelli, che fece una petizione e raccolse fondi utili per evitarne la fine. Giovanni Nencioni, presidente della Crusca dal 1972 al 2000, rilanciò l’Accademia. Mi piacerebbe compilare (siamo specializzati in questo stile, no?) una classifica dei più valorosi e importanti difensori della lingua italiana con le dieci parole inglesi che si usano più frequentemente nel nostro Paese, nonostante le parole italiane di uguale significato sarebbero più eleganti, comprensibili e interessanti. Infine, mi sembrava di aver scoperto l’acqua calda. Perché non confezionare un dizionarietto con le cento/duecento parole inglesi, che potrebbero essere sostituite con parole italiane, con profitto di chi le dice e di chi le ascolta?
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