Tra i tanti commenti che in questi giorni abbiamo letto sul voto dei deputati eletti all’estero sulla riforma della legge di cittadinanza italiana, l’articolo: Ius soli, Fedi (Pd): chi vota no nega la nostra storia, smentisce, secondo me, la vera storia degli italiani all’estero.
Abbiamo per l’On. Marco Fedi un grande rispetto. E’ un uomo che utilizza sempre la moderazione quando critica le opinioni altrui. Persona ben intenzionata, nel limite dell’adesione a un governo che certo non si distingue per un’alta considerazione degli italiani all’estero, Fedi cerca sempre di non voltare le spalle ai suoi elettori. Prova ne sia l’aver scelto il “non voto” degli emendamenti proposti dall’On. Ricardo Merlo, MAIE, per la questione della trasmissione della cittadinanza ai figli nati di madre italiana prima del 1948, mentre i suoi colleghi di partito votavano decisamente contro.
Ciò premesso, stupisce non poco leggere le critiche violente e superficiali della sua intervista apparsa su ItaliaChiamaItalia. Ricordare la storia è sempre un bene. Ma la storia non può, e non deve, sconfessare l’attualità. Le circostanze e le congiunture politiche internazionali cambiano continuamente.
Il fenomeno migratorio, che alla fine del 1800 e nei due dopoguerra ha interessato tanti italiani, è stato determinato da due cause: la necessità di chi partiva, in cerca di fortuna in un nuovo Paese, e quella di chi accoglieva i migranti, cioè i Paesi che avevano bisogno di nuova forza lavoro. Ma l’emigrazione attuale è ancora questa?
In passato – e quando erano gli italiani a migrare – per incoraggiare e garantirsi un’immigrazione che scegliesse di rimanere stabilmente, i paesi di accoglienza riconoscevano come cittadini i figli degli stranieri nati nel territorio nazionale e al contempo garantivano al migrante una lunga serie di diritti legati alla sua condizione di straniero, che non doveva mutare necessariamente. Questo ius soli era quindi accompagnato da una chiara politica di nazionalizzazione dei figli, che nella maggioranza dei casi si realizzava attraverso due obblighi a cui il figlio del migrante-nuovo cittadino – doveva assoggettarsi: l’istruzione pubblica (si imponevano non solo la lingua ma anche i valori nazionali) e la leva obbligatoria. Questo processo era accettato dai genitori, che avevano fatto la scelta di emigrare per dare ai propri figli una nuova patria e nuove opportunità. Si trattava di un’assimilazione dei figli, non c’era alcuna discussione possibile.
Chi emigrava nel secondo dopoguerra, ma soprattutto alla fine dell’800, lo faceva sapendo che la sua era una scelta senza ritorno; lo faceva volendo incominciare una nuova vita in un nuovo mondo, accettando il fatto di lasciare definitivamente il suo paese per non tornare mai più. Era scontato per il legislatore argentino, australiano o americano che il figlio dell’emigrante diventasse naturale del paese in cui nasceva e in cui sicuramente sarebbe morto. Lo scopo di quello ius soli era l’assimilazione.
Il mondo di oggi è molto cambiato. Grazie al progresso tecnologico, chi emigra oggi lo fa sapendo che prima o poi -se lo desidera – potrà ritornare nel suo paese e in poche ore. Anche oggi chi emigra soffre per il distacco fisico, che è sempre doloroso, e quanto! Ma partendo si sa che c’è la possibilità di rimanere collegato con la propria famiglia, i propri affetti, la propria terra con un’infinità di mezzi tecnologici.
Poniamo il caso di un bambino italiano che emigri, oggi: può andare a scuola e imparare alla perfezione l’italiano, poi tornare a casa e guardare la tv nella sua lingua madre, oppure può navigare in internet tra centinaia di siti, sempre nella sua lingua madre. Oggi l’assimilazione, grazie alla globalizzazione, è molto meno probabile. Si parla infatti di “mobilità” e non più di un’arcaica “migrazione”. Sono due categorie ben distinte. Chi oggi sfortunatamente per questioni economiche migra dall’Africa, o per questioni politiche e religiose, per la guerra e per il terrorismo fugge dalla Siria o dai paesi del Medio Oriente, è molto diverso dall’emigrante italiano del passato. Non possiamo utilizzare le categorie del passato per capire la circostanze del presente. Il mondo di oggi non è il mondo di allora.
È forse l’anarchico, che allora emigrava dall’Italia alle Americhe, uguale al terrorista di oggi? Ha forse l’Europa di oggi bisogno di migranti, come lo avevano le Americhe e l’Australia di allora? Bastano già le risposte a queste due domande per capire che le migrazioni di oggi poco hanno che vedere con le migrazioni storiche degli italiani di 60,100,150 anni fa.
Ma possiamo farci queste domande senza dover essere accusati di allineamento con destra o sinistra? Ha oggi ancora senso parlare di “destra” e “sinistra”, di “progressisti” e “conservatori”, per analizzare le problematiche attuali legate al terrorismo, per esempio? Interrogarci criticamente su questi argomenti significa negare la nostra storia di italiani all’estero? E’ opportuno approvare questa legge di cittadinanza per gli extracomunitari proposta dal Governo Renzi, nell’attuale congiuntura internazionale? Avere dei dubbi sull’opportunità che un extracomunitario diventato con questa legge italiano, facendo ritorno al suo paese, possa trasmettere la cittadinanza ai propri discendenti che nascono e crescono là, significa negare la storia degli italiani all’estero?
Siamo convinti, come rappresentanti degli italiani oltreconfine, che non possiamo difendere questa nuova legge che agevola il diritto di cittadinanza per gli extracomunitari e nega la possibilità del riacquisto della stessa agli italiani nati in Italia ed emigrati e non riconosce pari dignità alle donne italiane emigrate nella trasmissione della cittadinanza ai figli nati prima del 1948. Votare contro questa legge non è negare la storia degli italiani all’estero. Approvare questa legge, invece, è negare i loro diritti.
*coordinatore MAIE Argentina
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