In una discussione serena e seria sui migranti è possibile anche dire “aiutiamoli a casa loro”, ma per giustificare una simile affermazione certamente non possono bastare gli slogan. Altrimenti si rischia di dare l’impressione di rincorrere gli altri e di fare come Salvini e Grillo. Se su un tema così attuale e dirompente apriamo invece una vera discussione, con la problematicità che richiede e con l’intento di individuare proposte e soluzioni, a conclusione del confronto possiamo poi anche individuare nuove parole d’ordine. Ma partire dagli slogan, lo ripeto, credo sia un errore. E se fossi costretto ad usarne uno allora direi, prima di tutto, “integrazione”.
L’intera questione, infatti, ha implicazioni di grande rilievo quali la cooperazione allo sviluppo, l’impegno contro la povertà, il contrasto alla desertificazione, la lotta alla fame, le scelte mondiali per la sicurezza, la stabilità democratica, i ritmi di sviluppo, la salute. In questo senso è evidente che l’“aiutarli a casa loro” è connesso con “affinché sempre di meno siano costretti a partire”, collocandosi in una prospettiva positiva.
Ed è altrettanto evidente che la riflessione deve necessariamente estendersi anche alle nostre scelte in campo internazionale, in campo economico-commerciale e ambientale. Non è possibile che Paesi e forze economiche continuino a distruggere l’ambiente di interi continenti, a sfruttare le risorse naturali di altre realtà, a spingere forsennatamente le esportazioni in tutto il mondo e, nello stesso tempo, dichiararsi impegnati a sostenere la crescita e lo sviluppo democratico, civile e sociale di aree continentali in crescente difficoltà. Con l’illusione, vera o presunta, che la spinta a partire diminuisca, che il bisogno di spazi di crescita individuale e collettiva si attenui, che i confini del mondo si allontanino da noi.
Nel quotidiano questa discussione, tuttavia, rischia di essere superflua e superata da drammatiche emergenze: ogni giorno abbiamo a che fare con gli sbarchi e l’accoglienza. Il dovere di salvare vite umane dal Mediterraneo è prioritario. Questo non è solo una doverosa necessità, ma una lezione di civiltà che l’Italia sta dando al mondo. Il dovere, però, se non vuole essere una pura enunciazione di principio, implica sempre una responsabilità. Il tema è di tutti, a partire dalla UE. Ma non solo: la responsabilità è di tutti, a livello tanto collettivo quanto individuale.
Non esiste una distinzione tra migranti economici e rifugiati o profughi quando salviamo vite umane. Non esiste una distinzione in termini di accoglienza. La distinzione interviene, semmai, nel momento della identificazione. Quando devi decidere per ciascuno che arriva, cioè, se rimpatriarlo, dare seguito ad una sua richiesta di asilo, vale a dire accogliendo come rifugiato o profugo, oppure passare direttamente al reato di immigrazione clandestina.
La priorità dovrebbe essere quindi quella di abolire il reato di immigrazione clandestina, rendere più breve ed efficace il sistema di identificazione e rimpatrio e, ove possibile, integrare il numero chiuso annuale di immigrati regolari con eventuali accoglimenti regolati e controllati.
Un serio programma di immigrazione deve essere a numero chiuso se l’obiettivo è l’integrazione. Il programma deve essere autenticamente “umanitario” e quindi tener conto delle situazioni specifiche, dei ricongiungimenti famigliari, dei bisogni di manodopera e delle opportunità di impiego che offre il nostro mercato del lavoro. Sapendo, in ogni caso, che vi sono figure coperte dal diritto internazionale, rispetto alle quali l’Italia, come nessun altro Paese, si può esimere dal dare protezione.
Il programma di immigrazione non può e non deve essere confuso con l’emergenza, cioè con gli sbarchi e la necessità di salvare vite umane e di accogliere in attesa di identificare e capire esattamente cosa fare. “L’accoglienza”, insomma, non risolve tutto ed ha dei limiti oggettivi se non è affiancata da vere politiche di integrazione.
*deputato Pd eletto all’estero e residente in Australia
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