Giangi Cretti apre il nuovo numero de “La rivista”, mensile che dirige a Zurigo, con un editoriale sulla forza del made in Italy nel mondo.
“Le previsioni, va da sé autorevoli, sono rosee”, scrive Cretti. “A quelle, con legittima speranza, ci affidiamo. Raccontano di un export, rigorosamente targato Made in Italy, proiettato in crescita del 4% annuo a valere per il prossimo quadriennio. Chimica, mezzi di trasporto e agroalimentare tra i settori più dinamici; segnalato in aumento, seppur con le dovute cautele viste le avversità congiunturali degli ultimi tempi, anche quello della meccanica strumentale, che resta il primo settore per valore di esportazioni. Uno scenario che può apparire sorprendente, ma sul quale osservatori ed operatori concordano: nonostante gli allarmi circa le limitazioni al commercio e la persistente incertezza, le opportunità offerte dall’interscambio globale non sono affatto destinate a perdere d’attualità”.
“Condizione necessaria – sottolinea Cretti -, per cogliere al meglio il potenziale che si profila all’orizzonte: le imprese (ma, forse, anche il governo) devono dotarsi di una chiara strategia sulle destinazioni da privilegiare e di adeguati strumenti per valutare rischi e opportunità.
Sbaglia, sostengono gli esperti, chi, vagheggiando un ritorno a forme di protezionismo, demonizza la globalizzazione. Se ne faccia una ragione: non ci stiamo avviando verso la sua fine, ma piuttosto verso una sua nuova fase. Ancora più interconnessa, in cui alcuni mercati si chiudono ma molti altri si aprono, spostando il baricentro della competizione globale dai singoli Stati ad aree più estese, che gli addetti ai lavori chiamano Global Value Chain.
Una fase in cui, accanto all’interscambio di merci, anche quello di servizi, progetti e idee assumerà un ruolo sempre più preponderante, e l’export si riconfermerà un fattore imprescindibile di crescita per l’Italia. Al contempo, gli stessi analisti avvertono: almeno per l’anno in corso, tuttavia, il rallentamento degli scambi e le spinte protezionistiche saranno temi attuali per quasi tutti i settori industriali a livello internazionale, a fronte dei quali le imprese dovranno diventare più attente e selettive nella scelta delle destinazioni per l’export e gli investimenti, includendo i rischi politici e normativi come elementi primari dei propri piani strategici.
Dentro questo quadro, ulteriore testimonianza di quanto sia grande la domanda d’Italia in giro per il mondo, si colloca il fenomeno del cosiddetto Italian sounding.
Da solo vale circa 60 miliardi l’anno: di prodotti contraffatti e falsamente italiani, naturalmente a scapito di quelli autenticamente nostrani. È fra le più subdole forme di comunicazione ingannevole per il consumatore e di concorrenza sleale non facilmente contrastabile. Sfrutta una falsa evocazione di italianità: basta un richiamo nel nome (o un elemento grafico nella confezione: monumento o bandiera) per far diventare tricolore ciò che non lo è.
Il falso Made in Italy a tavola colpisce in misura diversa tutti i prodotti: dai salumi alle conserve, dal vino ai formaggi, ma anche olio extravergine, sughi o pasta e riguarda tutti i continenti. Con una particolarità: a differenza di quanto avviene per altri articoli come la moda o la tecnologia, a taroccare il cibo italiano non sono i Paesi poveri, ma soprattutto quelli emergenti o i più ricchi a partire proprio dagli Stati Uniti e dall’Australia.
A questo stato di cose se ne aggiunge un altro, per certi versi altrettanto insidioso ed inquietante: quello dell’italian sounding di matrice italiana, che importa materia prima (latte, carni, olio) dai paesi più svariati, la trasforma e ne ricava prodotti che successivamente vende come italiani senza lasciare traccia, innescando un meccanismo di dumping che danneggia e incrina il vero Made in Italy.
Nella consapevolezza che il futuro (anche quello tratteggiato di rosa) riserva sfide difficili: dalle crisi economiche ai mutamenti climatici, dai conflitti ai flussi migratori, l’Italia si deve attrezzare per affrontarle con le sue specifiche debolezze e i suoi mali antichi: non solo il debito pubblico, ma la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, la mancanza di lavoro, il peso delle mafie e della corruzione, una burocrazia spesso soffocante, il Sud che perde contatto.
A maggior ragione fondamentale, partire dai suoi punti di forza. Un’Italia competitiva – conclude il direttore de “La rivista” – sorretta da un’imprenditoria responsabile, che può dare risposte in sintonia con le domande dei consumatori globali del XXI secolo, declinando equità, sostenibilità, bellezza”.
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